Forse ho un carattere complicato, ma se non metto le cose nero su bianco non riesco a pensare. [Haruki Murakami - L'arte di correre].

L'arte di correre di Haruki Murakami

Certe volte le migliori lezioni di crescita personale si trovano in luoghi inaspettati.

Ho preso L'arte di correre, di Haruki Murakami, in cerca di una lettura di puro piacere, che non fosse collegata ai temi del blog.

E invece mi sono trovata davanti una vera lezione di crescita personale applicata.

Il titolo di questo libro - come spesso succede nelle edizioni italiane, purtroppo - è un po' fuorviante. In originale si chiama Di cosa parlo quando parlo di corsa, un tributo alla raccolta di racconti di Raymond Carver Di cosa parlo quando parlo di amore. Se l'avessero lasciato così molte persone non sarebbero rimaste deluse leggendolo.

Con il titolo italiano infatti sembra un manuale sulla corsa, e invece è tutt'altro: è quasi un'autobiografia, il ritratto di uno scrittore che corre.


La perseveranza è la virtù degli scrittori (ma anche dei baristi e dei maratoneti)

Haruki Murakami - che oggi ha 66 anni - dopo essersi laureato a Tokyo nel 1975, apre un Jazz Club assieme alla moglie.

Non ne sapeva nulla di affari, e infatti sono in molti a dirgli di lasciare perdere. Ma lui insiste.

A dire la verità è vero che riguardo la gestione di un bar non sapevo granché, ma visto che quella era la mia unica chance, ce la misi davvero tutta, feci uno sforzo disperato. Il segreto è tutto qui. La pazienza, la scrupolosità e la resistenza fisica sono sempre stati i miei soli titoli di merito, sin da quando ero bambino.

Per qualche anno deve lavorare tantissimo, dal mattino fino a tarda notte.

Arrivato vicino ai 30 anni è riuscito ad avviare come si deve il suo bar. Ha pagato i debiti e addirittura ha potuto assumere del personale. È finalmente con la testa fuori dall'acqua ed è lì che gli viene in mente di scrivere un romanzo.

Nella primavera nel 1978 comincia a buttare giù qualche riga e nell'autunno dello stesso anno il suo primo romanzo, Ascolta la canzone nel vento, è finito. Con quello vince un premio per esordienti e si guadagna la prima pubblicazione.

Direi che gli è andata bene ;)

Per qualche anno va avanti così: occupandosi del bar e scrivendo. Senza farsi spaventare dal duro lavoro.

Nel locale mi occupavo della gestione (...); stavo dietro al banco a preparare cocktail e stuzzichini fino a notte fonda, poi chiudevo, tornavo a casa, mi sedevo al tavolo della cucina e finché non mi veniva sonno lavoravo al manoscritto del momento: questa è l'esistenza che ho condotto per circa tre anni. Avevo l'impressione di vivere il doppio della gente comune.

Dopo un po' però arriva il momento di fare una scelta. Murakami si rende conto di avere una grande possibilità: quella di fare lo scrittore. Ma finché c'era il bar non avrebbe mai potuto scrivere qualcosa di davvero buono perché non aveva né il tempo né la concentrazione necessarie.

E così decide di chiudere il suo Jazz Club.

Il bar stava andando bene, mentre i guadagni dei libri pubblicati fino a quel momento non erano granché.
Ma lui aveva le idee chiare e capisce che per avere veramente una possibilità come scrittore deve correre qualche rischio.

Quando ho un progetto, mi ci butto a capofitto e, se va male, accetto di darmi per vinto. Se invece dovessi fallire perché ho fatto le cose a metà, probabilmente me ne pentirei finché campo.

E quindi, malgrado tutti lo consigliassero diversamente, nel 1981 chiude il bar e si dedica a tempo pieno alla scrittura.

Il suo terzo romanzo, Nel segno della pecora riceve qualche critica negativa, ma Murakami ha delle buone sensazioni. Sa di avere un pubblico di lettori, piccolo ma affezionato. Gente che aspetta i suoi romanzi e li compra appena escono. E questo era sufficiente.

Il successo serio arriva qualche anno dopo, nel 1987 quando pubblica Norwegian Wood che venderà più di due milioni di copie.

Insomma un po' se l'è rischiata, ma alla fine aveva ragione lui ;)

Ha avuto pazienza e perseveranza con il bar, ed è riuscito. Poi ha applicato gli stessi principi alla sua attività di scrittore, e ha vinto un'altra volta.

A un certo punto ha capito di dovere scegliere, e ha scelto.

Scrittori e introversione

Gli scrittori sono tutti introversi?

Non lo so, ma mi piacerebbe che qualcuno facesse un'indagine al riguardo.

Certo è che per scrivere devi essere capace di trascorrere molte ore in totale solitudine e concentrazione. Se stare da solo non ti piace, difficilmente ce la puoi fare.

Murakami descrive la sua introversione in modo limpido e molto consapevole.

io sono uno che ama stare da solo, è nella mia natura. Anzi, per maggior precisione, diciamo che stare da solo non mi dispiace. Correre ogni giorno per un'ora o due senza parlare con nessuno, trascorrere quattro o cinque ore seduto a scrivere in silenzio: non lo trovo né stancante né noioso. (...) Quando sto da solo, se necessario so inventarmi mille modi di passare il tempo. (...)
Io non sono una persona socievole.

Quanti sarebbero disposti a dirlo altrettanto chiaramente?
Eppure perché dobbiamo dare per scontato che essere poco socievoli sia un difetto di cui vergognarsi?

Per quanto mi riguarda, essere introversa non significa che non mi piacciono le persone. Vuol dire che non mi sento a mio agio in mezzo a tanta gente. Mi piace essere a cena con cinque amici, ma se siamo più di dieci mi piace già di meno. Nell'affollamento mi perdo. Dopo un po' comincio a sentirmi isolata, e mi viene voglia di scappare.

Apprezzo il tempo passato con gli altri, ma mi affatica. Ho bisogno di recuperare tenendo per me ampi spazi di solitudine durante i quali faccio il pieno di energia.

C'è qualcosa di male in questo?

Io non credo, eppure essere socievoli sembra quasi una necessità. Se non lo sei, se non ispiri quella simpatia a pelle, se non fai l'amicone a destra e a manca, di sicuro devi avere qualcosa che non va.

È piuttosto raro che io piaccia. Chi mai può provare simpatia o qualcosa di simile per uno che manca del tutto di spirito di collaborazione, che al minimo contrasto va subito a rifugiarsi da solo in un armadio? Mi domando però se uno scrittore di professione abbia davvero, sin dall'inizio, la possibilità di essere simpatico a qualcuno. Non lo so. O forse da qualche parte al mondo questo succede. Non si può generalizzare. Tuttavia, per lo meno per quel che mi riguarda, non credo sia possibile dedicarmi per mesi e mesi alla scrittura, e al tempo stesso suscitare simpatia su un piano personale. Mi sembra invece più naturale che la gente mi detesti, mi odi o mi disprezzi. Anche se non ho intenzione di dire che quasi lo preferisco. Sarò quel che sarò, ma non c'è alcun motivo perché io sia contento di non piacere ai miei simili.

Suona un po' strano che un autore di best seller dica di non piacere alle persone. Non pensiamo forse che avere successo significhi anche essere ammirati, lodati, socialmente graditi e ricercati? A quanto pare per Murakami non è affatto così. O almeno, lui non si sente così.


Gareggiare con se stessi

Quando Haruki Murakami chiude il bar e si dedica a tempo pieno alla scrittura decide anche di cambiare stile di vita.

Finché gestiva il bar era sempre in movimento, e malgrado la vita che conduceva a quei tempi non fosse di certo salutare, quando meno si manteneva magro.

Quando comincia a passare le sue giornate seduto alla scrivania, ingrassa. E poi fuma tanto: sessanta sigarette al giorno.

Deve fare qualcosa e andare a correre è la scelta per lui più naturale. Non c'è bisogno di compagnia per correre, non serve una palestra, e l'equipaggiamento necessario è ridotto all'osso: un paio di buone scarpe.

Così comincia a correre e si appassiona così tanto che dopo poco smette di fumare. Una combinazione virtuosa che molti ex-fumatori e runner conoscono molto bene. Io stessa ho innescato questo meccanismo almeno un paio di volte, anche se con la corsa non sono riuscita mai a decollare (però con il fumo ritengo di avere chiuso).

Murakami cambia anche orari. Per gestire il bar doveva per forza fare il nottambulo. Appena può fare come gli pare ribalta tutto: si alza alle cinque e va a letto alle dieci.

È interessante leggere queste pagine perché con grande semplicità e senza enfasi Murakami racconta di un evidente circolo virtuoso che è riuscito a innescare nella sua vita. Un movimento tutto giocato tra mente e corpo che rinforza salute, creatività, capacità a impegnarsi.

Correre diventa un modo per diventare sempre più resilienti, anche se lui non usa mai questa parola. E diventa anche un modo per misurarsi con se stessi, e non con gli altri.

In qualsiasi circostanza, battere un avversario è l'ultima delle mie preoccupazioni. Ciò che piuttosto mi interessa è se riesco o meno a raggiungere gli obiettivi che io stesso mi sono prefisso. In questo senso, correre su lunga distanza è uno sport perfettamente consono alla mia mentalità.




Anche sulla forza di volontà, Murakami ha da dire la sua:

A essere sinceri ho la sensazione che tra il correre ogni giorno e il fatto di avere una forte forza di volontà non ci sia un rapporto evidente. Se io corro ormai da più di vent'anni, in realtà è perché è un'azione consona alla mia natura. Gli esseri umani trovano naturale perseverare nelle cose che amano, e in quelle che non amano no, sono fatti così. In questo la volontà avrà anche un suo ruolo, ma nessuno può continuare per molto tempo a fare qualcosa per cui non è portato, nemmeno se possiede una volontà di ferro, nemmeno se per carattere non tollera sconfitte. E anche ammettendo che ci riesca, non ne trarrà alcun beneficio.

Correre e scrivere sono attività diverse, ma condividono una natura molto simile.

Davanti agli altri si possono trovare dei pretesti, ma ingannare se stessi è impresa ben più ardua. In questo senso scrivere un libro è un po' come correre una maratona, la motivazione in sostanza è della stessa natura: uno stimolo interiore e preciso che non cerca conferma in un giudizio esterno.


Per questo dico che L'arte di correre, almeno nella prima metà, è praticamente un libro di crescita personale.

C'è tutto: perseveranza, cambiamento, resilienza, consapevolezza, scelte, successo, esercizio fisico, equilibrio mentale. Manca qualcosa?

La meditazione forse?
Be', ecco cosa dice riguardo ai pensieri durante la corsa:

Quando corro, semplicemente corro. In teoria nel vuoto. O viceversa è anche possibile che io corra per raggiungere il vuoto. In quella sospensione spazio-temporale, pensieri ogni volta diversi si insinuano naturalmente nel mio cervello. È naturale, perché nell'animo umano non può esistere il vuoto assoluto. Il nostro spirito non è abbastanza forte per concepire il nulla, e inoltre non è coerente. Insomma, i pensieri che si avvicendano nella mia mente mentre corro sono semplicemente derivati del nulla, tutto lì. Si formano ruotando attorno al nulla.
Somigliano alle nuvole che vagano nel cielo. Nuvole di grandezza e forma diverse che arrivano, e se ne vanno, semplici ospiti di passaggio. Ciò che resta è soltanto il cielo, che è sempre lo stesso.

Se non è un atteggiamento meditativo questo...

Insomma, come dicevo all'inizio, ho cominciato questo libro pensando a una lettura di tutto svago, e invece mi sono ritrovata a sottolinearlo di continuo sul mio Kindle e a meditare di scriverci un post per il blog.

Come lettura successiva ho scelto un giallo... con quello dovrei essere al sicuro, ma non si sa mai ;)


**L'arte di correre**, di *Haruki Murakami*, Einaudi