È vero che essere molto critici con se stessi è una buona cosa per spronarci a dare il meglio? Gli studi sull'autocompassione dimostrano il contrario. Ma per capirlo abbiamo bisogno di togliere alla parola compassione certi significati negativi che purtroppo ha assunto nel corso nel tempo per riportarla al suo significato originale: il desiderio di alleviare uno stato di sofferenza (nostro o di qualcun altro).


Qualche giorno fa tornando a casa dal lavoro ho danneggiato malamente un'auto mentre cercavo di parcheggiare. Ero distratta, ho sbagliato a calcolare le misure e ho fatto il danno.
Come se non bastasse, mentre cercavo i documenti dell'assicurazione nel solito cassetto del cruscotto, mi sono accorta che non c'era il libretto. Sparito, scomparso, volatilizzato.

Insomma doppio guaio: prima ammacco una macchina, poi mi accorgo di avere perso il libretto dell'auto. Mi sono sentita proprio un'incapace.
Ho fatto caso al mio dialogo interiore in quei momenti e mi sono accorta di avere reagito con grande rabbia e stizza. Come cavolo avevo fatto a combinare un pasticcio del genere?

Ho provato a dire a me stessa che sono cose che capitano, ma a prevalere è stata l'irritazione, il rimprovero, l'aggressione.

Così ho pensato che fosse arrivato il momento di tornare su un argomento di cui ho già parlato: l'autocompassione. La capacità di essere gentili con noi stessi nelle difficoltà (grandi e piccole) e di considerare errori, imperfezioni e fallimenti come aspetti ineludibili del nostro essere umani.

Evidentemente mi serve un ripasso ;)

C'era una volta l'autostima

Noi esseri umani probabilmente siamo le uniche creature viventi capaci di procurarci una dose non indifferente di sofferenza attraverso le cose che pensiamo di noi stessi: giudizi, aspettative, rimpianti e la terribile abitudine a confrontarci di continuo con gli altri.

Ciò che pensiamo di noi stessi gioca un ruolo molto importante per il nostro benessere. Per questo gli psicologi hanno sempre dedicato una grande attenzione al modo con cui le persone pensano a loro stesse.

Per molto tempo gli esperti si sono concentrati sul concetto di autostima. Molte ricerche hanno messo in evidenza che l'autostima è un ingrediente fondamentale per una vita felice e di successo.

Avere autostima significa avere una buona opinione di sé, considerarsi persone capaci, di valore, meritevoli.

Negli Stati Uniti c'è stato un fortissimo movimento attorno al concetto di autostima.

Addirittura nel 1984 l'Assemblea di Stato della California ha stanziato dei fondi per creare una task force con il compito di promuovere l'autostima tra i cittadini.

Sono stati anche varati programmi su vasta scala per migliorare l'autostima tra i giovani. Nelle scuole elementari americane in particolare si considerava necessario fornire ai bambini le basi per una buona autostima.

Anche in Italia ovviamente tutti sanno di cosa si tratta e gli scaffali dedicati al self help nelle librerie sono pieni di manuali su come migliorare la stima di sé.

L'autostima è stata considerata la soluzione a un sacco di problemi personali: con una buona autostima le persone possono avere vite più felici, più serene, e di successo.

Negli ultimi quindici anni circa però tutto questo entusiasmo si è calmato. Alcuni psicologi hanno osservato che insistere troppo sull'autostima aveva qualche effetto negativo (vedi per esempio questo articolo).

L'autostima è un concetto che ha che vedere con il valore, il giudizio. Per avere autostima molti pensano di dover essere sopra la media. E per sentirsi sopra la media si finisce per forza con lo sminuire il valore degli altri. Secondo qualcuno tutta questa enfasi sul concetto di autostima ha portato anche a un aumento del narcisismo.

C'è poi un altro punto critico: siamo davvero sicuri che per avere successo nella vita serva una buona autostima? non sarà vero il contrario: cioè che avere successo nella vita porta ad avere una buona opinione di sé, e quindi più autostima? È l'autostima che ci fa riuscire bene nella vita, o è riuscire bene nella vita che aumenta l'autostima?

Insomma chi viene prima: l'uovo o la gallina? Le ricerche hanno sempre dimostrato che c'è una relazione tra autostima e successo, ma non è mai stato dimostrato quale è la causa e quale l'effetto.

Con questo non è che si debba pensare che avere una buona autostima sia una cosa negativa, ci mancherebbe. Ma forse - suggeriscono alcuni psicologi - potrebbe esserci anche un altro modo per stare bene con noi stessi che non debba per forza basarsi su un giudizio di valore e sul successo delle nostre azioni.

E c'era una volta anche la compassione

Compassione - e autocompassione - sono temi centrali nel buddhismo.

Sappiamo bene che alcune idee e pratiche del buddhismo sono state riprese nella medicina occidentale. Basta pensare alla mindfulness da Jon Kabat Zinn in avanti.

Lo stesso succede con il concetto di compassione, che alcuni psicologi hanno messo al centro delle loro attività di ricerca. Una delle prime a occuparsi del tema è stata Kristine Neff, americana, che insegna all'università del Texas a Austin. Un altro esperto del tema è Paul Gilbert, professore di psicologia all'Università di Derby (UK) che ha sviluppato una forma di psicoterapia basata sulla compassione e ha scritto un libro dal titolo The Compassionate Mind.

Ma cosa vuol dire compassione?

Significa essere aperti e sentirsi toccati dalla sofferenza delle altre persone, e quindi desiderare di poterla alleviare. È quello che proviamo quando un amico o una persona alla quale vogliamo bene si trova in difficoltà. È naturale desiderare di alleggerire la sua pena, mantenendo nei suoi confronti un atteggiamento gentile, premuroso, senza esprimere giudizi. Insomma se una persona a cui vuoi bene ha un problema, di solito non gli dici: te la sei cercata, è colpa tua, hai sbagliato. Giusto?

Tra l'altro - scusate la parentesi - i recenti (e anche meno recenti) fatti di cronaca mi fanno pensare che di compassione ne abbiamo un gran bisogno, visto che è proprio con frasi come se l'è cercata che fin troppe persone provano a giustificare fatti anche molto gravi. Come se fosse naturale che per un errore o una ingenuità si debba pagare subendo violenze di vario tipo o addirittura con la morte. Fine parentesi.


Autocompassione. Come imparare a essere il tuo migliore amico


Questo sentimento di gentilezza e apertura che prende il nome di compassione possiamo rivolgerlo anche a noi stessi. Riconosciamo l'esistenza dei problemi che stiamo attraversando, senza cercare di sminuirli (e nemmeno di esagerarli), e trattiamo noi stessi in modo gentile e comprensivo. Niente critiche aspre, giudizi, modalità punitive. Meglio un caldo abbraccio.

L'atteggiamento compassionevole verso se stessi comporta avere consapevolezza del problema che stiamo affrontando - che dipenda o non dipenda affatto da un nostro errore - evitando di farsi male due volte.

Spesso infatti abbiamo la tendenza a duplicare il dolore che le circostanze della vita ci infliggono. Soffri una volta perché hai un problema, hai fatto uno sbaglio, o hai subito una perdita, una delusione. E poi sopra ci metti una seconda dose di sofferenza perché ti tratti male, ti lasci abbattere dal senso di colpa, ti senti inadeguato, ti giudichi male, ti rimproveri.

I problemi, le delusioni, i fallimenti, i dispiaceri, difficilmente li possiamo evitare. La prima freccia ormai ci ha colpito e fa male. Possiamo però evitare la seconda freccia, quella che ci scagliamo addosso da soli pensando male di noi stessi, criticandoci, rimuginando sulle nostre colpe.

Non siamo soli

La capacità di provare compassione per noi stessi è strettamente legata alla capacità di riconoscere che tutte le persone hanno problemi e soffrono.

Milioni di persone si confrontano con i nostri stessi dilemmi, hanno (o hanno avuto) le medesime difficoltà che stiamo sperimentando noi adesso. Anche nelle circostanze più dure e difficili possiamo stare certi che altri assieme a noi e prima di noi le hanno attraversate.

Mal comune mezzo gaudio?

No, ovviamente non è questo il senso. Si tratta piuttosto di rompere quel senso di isolamento e di chiusura in noi stessi che troppo spesso si accompagna ai momenti di crisi.

Ci si sente a volte unici e speciali con i problemi e difficoltà della nostra vita. Si può avere la sensazione che gli altri non ci possono capire e tanto meno aiutare. Non è vero, quasi mai.

Certo, riconoscere che anche altre persone sperimentano le nostre stesse difficoltà non ci impedisce di soffrire. Però evita di personalizzare il problema, e il proliferare di pensieri inutili come: ma perché succede proprio a me? come sono disgraziato, come è ingiusto tutto questo.

Compassione e autocompassione ci aiutano a sentirci parte di un tutto, connessi alle altre persone e agli altri esseri viventi, e non disperatamente soli, isolati, o speciali.


Mani che si tengono. Autocompassione e connessione


In una lettera scritta nel 1950 da Albert Einstein si trova questo pensiero illuminante:

Un essere umano è parte di un tutto, che noi chiamiamo Universo; ne è una parte limitata nel tempo e nello spazio. Egli sperimenta se stesso, i suoi pensieri ed emozioni come qualcosa separato dal resto, una sorta di illusione ottica della coscienza. Questa illusione è come una prigione, limita i nostri desideri e affetti alle poche persone che ci sono vicine. Il nostro compito deve essere di liberare noi stessi da questa prigione allargando il nostro cerchio di compassione affinché comprenda tutte le creature viventi e l’intera natura nella sua bellezza.

La nostra cultura occidentale attribuisce grande valore all'individualità, al sé, all'unicità di ogni persona. Forse adesso cominciamo a sentire il bisogno di recuperare tutto quello che al contrario ci rende uguali, connessi, vicini.

Compassione e autocompassione vanno in questa direzione.

Autocompassione e responsabilità

Bisogna però fare un po' di attenzione con l'idea di autocompassione, perché rischia di essere male interpretata.

In particolare bisogna segnare un bel confine netto e preciso tra autocompassione e un atteggiamento di eccessiva indulgenza verso noi stessi. Compassione significa desiderare meno sofferenza. Significa evitare di somministrarci dosi aggiuntive di dolore alimentando il nostro critico interiore. Ma di certo non significa trovare sempre una scusa, dare la colpa agli altri, lamentarsi.

Quello che secondo me segna molto bene il confine è la responsabilità.

Se ho fatto un errore riconosco di averlo fatto e senza esitare cerco di rimediare.

Se sono scontento della situazione in cui mi trovo, prendo la piena responsabilità di questa mia insoddisfazione e faccio del mio meglio per cambiare la situazione, o per uscirne, o per accettarla così come è, se proprio devo.

Se sono andato incontro a un fallimento, non mi concentro sulle colpe degli altri o sulle circostanze, ma prendo atto della mia quota di responsabilità e cerco di fare meglio la volta dopo.

Autocompassione e responsabilità vanno in qualche modo a braccetto. L'autentica autocompassione non è indulgenza, e nemmeno una scusa per non darsi da fare seriamente quando serve.

Una persona autocompassionevole riconosce l'esistenza di un problema, lo risolve se è possibile, lo affronta anche dal punto di vista emotivo, e poi cerca di andare avanti.

Parla al tuo critico interiore

Sul sito web di Kristine Neff ci sono anche alcune pratiche per imparare a essere più autocompassionevoli. D'altra parte, se siamo d'accordo che si può migliorare l'autostima, perché non dovrebbe essere possibile fare lo stesso con la compassione?

Per allenare l'autocompassione è importante per prima cosa avere consapevolezza del nostro dialogo interiore. L'idea è di osservare attentamente quali parole rivolgiamo a noi stessi nelle piccole o grandi difficoltà.

Io per esempio mi sono accorta che a volte (non sempre per fortuna) se commetto qualche piccola distrazione come lasciare qualcosa a casa, o dimenticare di fare una telefonata, subito rivolgo a me stessa frasi come: ma che scema, ma che cavolata hai fatto, e cose del genere.

Voglio dire: io non mi rivolgo mai alle altre persone in questo modo. Perché allora parlo così a me stessa? È brutto dirlo, ma qualche volta lo faccio.

Kristine Neff consiglia di provare una pratica in tre parti per cercare di cambiare il nostro dialogo interiore, ammorbidendo le voci troppo critiche e dure.

  1. Il primo passo è osservare: notare quando stiamo diventando autocritici. Può succedere di essere così abituati al nostro critico interiore da non farci nemmeno più caso. Allora possiamo fare attenzione ai momenti in cui ci sentiamo un po' a disagio e domandarci: come è il mio dialogo interiore in questo momento? cosa sto dicendo a me stesso? Kristine Neff dice che bisogna essere molto accurati: osservare esattamente le frasi, le parole, che stiamo usando per criticarci. Volendo è un esercizio che possiamo fare per iscritto.
    Ci sono frasi ricorrenti in questo dialogo interiore ipercritico? Il tono com'è? Arrabbiato, freddo, aspro? Ti ricorda per caso qualcuno che in passato ti ha criticato proprio con questo tono e queste parole?
    L'idea è di farsi un quadro molto chiaro del nostro critico interiore.

  2. Il secondo passo è cercare di ammorbidire la voce autocritica, usando dolcezza e compassione. Per esempio possiamo dire al nostro critico interiore: Lo so che mi rimproveri perché sei preoccupato per me e hai paura che io possa mettermi nei guai; ma se mi parli con tanta severità mi fai stare inutilmente male. Ora potresti lasciare parlare la mia voce compassionevole invece?

  3. Il terzo passaggio consiste nel riformulare le parole del tuo critico interiore in una modalità più positiva. Per esempio se prima il tuo critico aveva detto: ma quanto sei stupida, ti sei dimenticata di passare in lavanderia oggi! adesso potrebbe dire: ti sei dimenticata di passare in lavanderia oggi, ok lo capisco, è stata una giornata impegnativa, la prossima volta però magari scrivilo sull'agenda, così non ti dimentichi. Così a poco a poco possiamo imparare a essere più gentili e accoglienti verso noi stessi, esattamente come se stessimo parlando con un amico.


Purtroppo facciamo una certa fatica a parlare di compassione perché questa parola nel corso del tempo ha assunto anche una connotazione negativa. Nei dizionari italiani infatti si trovano due significati. La compassione indica il sentimento di partecipazione alle sofferenze altrui, ma anche (cito dalla Treccani on line) "un senso di sprezzante commiserazione, detto di cose biasimevoli, ridicole, meschine, di lavori mal riusciti, di persone inette".

È un peccato perché nel suo significato originario la compassione è qualcosa di molto nobile. Vicino al significato di empatia, ma con un accento più forte sulla vicinanza e sulla condivisione.

Alla fine essere auto-compassionevoli significa questo: comportarci come se fossimo il nostro migliore amico. Un vero amico ti accoglie sempre con affetto, ti incoraggia, è aperto e gentile. È capacissimo, se serve, di darti torto e di farti notare i tuoi errori, ma lo fa sempre con dolcezza e comprensione, non ti prende a male parole. Non farlo nemmeno tu allora.