Una cosa è chiara da subito. I miei occhi non accettano regole e si chiudono quando vogliono loro. Per strada, di fronte alla televisione o al computer. Per poi riaprirsi, quasi miracolosamente, se devo cucinare o tagliarmi le unghie...

Paola Emilia Cicerone è una giornalista che si occupa di temi che riguardano la salute e la medicina. Da poco è uscito il suo libro - Cecità clandestina - nel quale racconta di una strana malattia che l'ha colpita qualche anno fa. Una malattia rara, bizzarra, di cui gli stessi medici sanno poco, e dalla quale poi, per fortuna, è guarita. Il nome tecnico è blefarospasmo, una contrazione involontaria delle palpebre che porta a una condizione definita cecità funzionale. Insomma, occhi che si chiudono quando pare a loro.

Il suo è un libro breve e molto piacevole da leggere, nel quale si trovano, come tanti quadretti dipinti, le diverse sfaccettature della sua vicenda: gli incontri con i vari specialisti, la ricerca di cure complementari, il bisogno di non perdere la propria autonomia, la complicità meravigliosa delle amicizie, la riorganizzazione delle propria routine quotidiana per venire a patti con la malattia.

Libro Cecità clandestina Paola Emilia Cicerone

Anche se il disturbo che ha colpito Paola è raro, il suo è comunque un racconto universale, che riguarda tutti. È quello che succede quando la nostra salute vacilla; quando il normale procedere nella nostra vita si interrompe e siamo costretti a misurarci con la vulnerabilità del nostro corpo e della nostra mente. E affidarci alle cure di qualcuno che, si spera, sappia come aiutarci a guarire.

Macchine da aggiustare

Quando stiamo male - o anche quando siamo solo preoccupati per la nostra salute - ci troviamo, per molto o per poco, proiettati in una dimensione diversa. La nostra normalità ci sfugge di mano, ci sentiamo più fragili, esposti, vulnerabili. Abbiamo bisogno di trovare una soluzione, di guarire, e per questo ci affidiamo speranzosi alle mani dei medici, chiedendo a loro una diagnosi e una cura.

Il rapporto con i medici non è sempre facile. È un rapporto impari. Da una parte il paziente, l'ammalato: con la sua sofferenza, le sue paure, il suo non sapere. Dall'altra parte il medico che con la sua conoscenza ha il potere di guarire.

Da pazienti non possiamo avere il controllo della situazione. Dobbiamo per forza affidarci, avere fiducia. Da parte loro i medici, soprattutto oggi, tendono a non guardare il paziente, ma la malattia. Non la totalità di una persona, ma solo il suo corpo, e nemmeno tutto intero, solo quell'organo, quel pezzetto, che non sta funzionando a dovere.

In tutto questo il paziente ha un ruolo passivo. È ammalato, non sa nulla o quasi della sua malattia, può solo trasportare il proprio corpo nell'ambulatorio, o nell'ospedale, e lasciare che i medici lo aggiustino.

Tiziano Terzani, in quel libro bellissimo che si intitola Un altro giro di giostra, chiama proprio aggiustatori i medici a cui si è rivolto per curare il suo cancro.

Io ero un corpo: un corpo ammalato da guarire. E avevo un bel dire: ma io sono anche una mente, forse sono anche uno spirito e certo sono un cumulo di storie, di esperienze, di sentimenti, di pensieri e di emozioni che con la mia malattia hanno probabilmente avuto un sacco a che fare! Nessuno sembrava volerne o poterne tenere conto. Neppure nella terapia. Quel che veniva attaccato era il cancro, un cancro ben descritto nei manuali, con le sue statistiche di incidenza e di sopravvivenza, il cancro che può essere di tutti. Ma non il mio!
L'approccio scientifico, razionale che avevo scelto faceva sì che il mio problema di salute fosse più o meno quello di un'automobile guasta che, assolutamente indifferente alla prospettiva di essere rottamata o accomodata, viene affidata a un meccanico, e non il problema di una persona che, coscientemente, con tutta la sua volontà, intende essere riparata e rimessa in marcia.
A me come persona, infatti, i bravi medici-aggiustatori chiedevano poco o nulla. Bastava che il mio corpo fosse presente agli appuntamenti che loro gli fissavano per sottoporlo ai vari "trattamenti".

Buona parte della nostra avanzatissima, specializzata, iper-tecnologica medicina occidentale, funziona così: guarda al corpo, all'organo, alla malattia. Parla un linguaggio fatto di numeri e di statistiche, e sostanzialmente prevede un paziente passivo, che deve limitarsi a essere presente quando serve e a rispettare le prescrizioni che gli vengono date.

Ma noi, i pazienti, siamo persone tutte intere, non corpi, né pezzi di organi malati. In questo ruolo passivo, di macchine portate in officina per essere aggiustate, è facile che ci sentiamo scomodi.

La malattia ha sempre un vissuto personale: pensieri, emozioni, interpretazioni, ricordi, convinzioni. Tutto questo ai medici di solito non interessa. Non è considerato importante per fare una diagnosi e per stabilire la cura.

Questo è uno dei motivi per cui tante volte la relazione con i medici è così difficile. Noi portiamo nello studio del dottore - che sia il medico di base o lo specialista - tutto il nostro vissuto, comprese le convinzioni (che qualche volta possono essere sbagliate), le paure e il bisogno di rassicurazioni, la nostra personale interpretazione su quello che ci sta accadendo.

E dall'altra parte troviamo un medico che di solito è poco o nulla interessato a tutto questo, che spesso ha la fila di pazienti fuori in attesa, che è incalzato dalla fretta, che nemmeno ci guarda in faccia mentre parliamo perché è impegnato a registrare le nostre riposte sul computer.

Non c'è da stupirsi se poi si esce dallo studio del medico irritati, qualche volta confusi, scontenti.

E se medici e pazienti imparassero a capirsi meglio?

La medicina narrativa

Il campo della medicina narrativa è stato fondato alla fine degli anni novanta da un medico internista della Columbia University, Rita Charon.

Laureata alla Harvard Medical School, da sempre vorace lettrice di romanzi, Rita Charon alla fine degli anni settanta aveva cominciato a lavorare come medico in ospedale. Nella sua pratica clinica notava quanto i pazienti chiedessero di essere ascoltati.
Comincia così a ragionare sul fatto che ogni paziente è portatore di una storia, che si esprime a parole, a gesti, con i cambiamenti del corpo, con i silenzi e le esitazioni. E comincia a pensare che queste storie sono importanti: che ascoltare e capire le storie che i pazienti costruiscono sulla malattia possa aiutare il medico a fare meglio il suo lavoro.

Così, Rita Charon va a studiare al Dipartimento di letteratura inglese e prende un dottorato con una tesi su uno dei suoi scrittori preferiti: Henry James. E poi porta quello che ha imparato sulle storie nelle corsie dell'ospedale.

Decide di prestare molta attenzione alle storie dei pazienti, alle loro narrazioni. Invece di subissarli di domande: dove le fa male? quando è successo? che malattie ha avuto? quali allergie ha? appuntandosi le risposte al computer, lei si mette comoda davanti ai suoi pazienti e dice una cosa di questo tipo: ok, io diventerò il suo dottore. Questo significa che ho bisogno di sapere più cose possibili sul suo corpo, sulla sua salute, sulla sua situazione. Cosa ritiene di volermi dire al riguardo?

E poi ascolta. Ascolta e qualche volte si prende del tempo per scrivere le storie dei suoi pazienti. E poi le rilegge assieme a loro.

Questa è la medicina narrativa: un modo diverso di strutturare la relazione tra medico e paziente; un modo in cui il paziente non è più solo un corpo (o addirittura un organo) guasto, ma qualcuno che partecipa attivamente al processo di cura attraverso la narrazione.

Certo non sono molti i medici che seguono questo approccio. Però piano piano le idee di Rita Charon hanno comunque cominciato a diffondersi. Anche qui in Italia se ne parla sempre più spesso. Per approfondire si possono vedere OmniNews - Il giornale di medicina narrativa e il sito della Società Italiana di Medicina Narrativa.

In alcuni ospedali hanno cominciato a sperimentare la cartella clinica narrativa: una cartella clinica parallela, che si affianca a quella tradizionale, in cui medici e infermieri raccontano, con un linguaggio non tecnico, la loro esperienza con il paziente, le eventuali difficoltà di relazione, le impressioni avute.

Già perché raccontare, a quanto pare, non fa bene solo ai pazienti, ma anche a chi dei pazienti si prende cura.

Tra medico e paziente

La medicina narrativa non serve solo ad avvicinare il medico al paziente... ma anche il contrario, cioè ad avvicinare il paziente al medico.

Già, perché sarà anche vero che i medici spesso non ascoltano, che hanno fretta, che non si curano degli aspetti comunicativi e relazionali, ma è vero anche che noi pazienti a volte portiamo dal medico aspettative ed esigenze che non sempre possono essere soddisfatte.

Ci aspettiamo certezze che non sempre la medicina è in grado di darci; ci aspettiamo una cura, una farmaco, una soluzione, mentre spesso la situazione richiede pazienza, attenzione, e collaborazione anche da parte nostra. Vogliamo tempo e attenzione e non pensiamo che la persona che ci sta davanti potrebbe essere stanca, avere fatto turni impossibili, essere preoccupata per altri pazienti che stanno peggio di noi...

Rita Charon, nel suo intervento a TEDxAltanta, spiega che ai suoi corsi di medicina narrativa partecipano tutti: medici, infermieri, malati, familiari dei malati. Questo perché così facendo si può costruire un percorso comune.
La narrazione è in grado di creare uno spazio in cui diversi campi della conoscenza che di solito sono separati, possono incontrarsi e dialogare.

Anche Paola Emilia Cicerone, nel suo libro Cecità clandestina, accenna a questo tema del terreno comune in cui medici e pazienti potrebbero incontrarsi, con vantaggio per entrambi.

Parlare della propria salute non è facile, particolarmente di fronte al medico che spesso mette in crisi la nostra certezza di essere sani: per questo si consiglia, almeno quando sono in ballo questioni importanti, di non andare a una visita medica da soli, di prendere appunti, di fare domande. Cercando un punto di incontro tra due mondi diversi, quello del malato che espone un problema e cerca una soluzione, e quello del medico. Che può aiutare a informare ma non ha sempre una soluzione a portata di mano, e qualche volta non ce l'ha affatto.

Raccontare la malattia

La medicina narrativa mette al centro dell'attenzione le storie raccontate dai pazienti. Storie che vengono raccontate negli incontri negli ambulatori o dal letto di un ospedale, ma anche, volendo, storie scritte: diari, lettere, libri.

Decidere di raccontare la propria malattia, i sintomi, le emozioni, i significati, è un modo per uscire dalla passività nella quale finiamo relegati in quanto pazienti. Lo hanno fatto in molti, autori più o meno famosi, realizzando con il loro racconto libri anche molto belli, come i due che ho citato in questo articolo.

Ma non c'è bisogno di scrivere un libro... anche le pagine di un diario possono servire allo scopo. Per prendere un momento con se stessi in cui riflettere, capire cosa ci sta succedendo, chiarirsi le idee, sciogliere le proprie emozioni che, in caso di problemi di salute, facilmente saranno molto intense e aggrovigliate.

Scrivere aiuta a guarire?

Non lo so, può essere. Negli anni scorsi all'Università di Auckland, in nuova Zelanda, una psicologa di nome Elizabeth Anne Broadbent ha condotto due studi che hanno dimostrato che gli esercizi di [scrittura espressiva](../scrittura espressiva) aiutano a rimarginare più velocemente piccole ferite della pelle.

Strano, non è vero? Cosa c'entra la velocità con la quale si rigenerano le cellule della mia pelle con il fatto che io scriva delle mie emozioni venti minuti alla volta per quattro sere di seguito?

Questi risultati non fanno altro che confermare quanto siano complessi i rapporti tra mente e corpo. Non che i poteri della mente possano farci guarire miracolosamente dalle malattie... lasciamo da parte le ciance... ma è probabile che elementi come una condizione di serenità interiore, un buon rapporto con le proprie emozioni, relazioni sociali solide, la fiducia nei trattamenti, possono giocare un ruolo positivo nei processi di guarigione.

E se scrivere ci aiuta a elaborare il nostro vissuto, a mettere ordine in noi stessi, a distendere emozioni difficili, allora sì, può essere che scrivere aiuti a guarire.