A sud del golfo del Bengala, nell'Oceano indiano, ci sono le isole Andamane, dove vivono alcune popolazioni indigene. Sono cacciatori, raccoglitori e pescatori, rimasti per lungo tempo isolati e senza contatti con il resto del mondo.

Sono tribù molto antiche: si pensa che vivano là da 60.000 anni.

Il 26 dicembre 2004 - ce lo ricordiamo tutti credo - ci fu un fortissimo terremoto, al quale seguì lo tsunami che devastò chilometri e chilometri di costa uccidendo moltissime persone.

Le isole Andamane furono investite in pieno dall'onda anomala e molti telegiornali dissero che sicuramente le popolazioni indigene erano state spazzate via per sempre.

Le isole andamane

Le isole Andamane - L'immagine è di Venkatesh K from Bangalore[CC BY 2.0], via Wikimedia Commons

Due giorni dopo un elicottero della polizia indiana stava sorvolando le isole. Un uomo sbucò dalla foresta armato di arco, lo puntò contro l'elicottero e scagliò qualche freccia. Fu così che si scoprì che in verità le tribù indigene erano scampate al disastro. Si erano salvati quasi tutti.

In altre aree più moderne e piene di turisti, lo tsunami aveva colto tutti alla sprovvista. Come mai invece queste tribù erano riuscite a salvarsi?

Non è del tutto chiaro, perché gli indigeni non lo hanno voluto spiegare nel dettaglio. Fatto sta che avevano capito che stava succedendo qualcosa e si erano allontanati dalle coste trovando rifugio nelle parti interne più elevate delle isole.

Magia nera? Poteri soprannaturali?
Niente di tutto questo. C'era stato un violento terremoto in mezzo al mare, e l'onda che ne era scaturita aveva impiegato qualche ora prima di raggiungere la terraferma. Molto probabilmente queste persone, conoscendo alla perfezione la terra, il cielo e il mare in cui vivevano, avevano capito che stava accadendo qualcosa di anomalo al mare e si erano messi al sicuro.

Un rapporto così stretto con l'ambiente naturale per noi è impensabile. Ce lo siamo lasciati alle spalle da parecchie generazioni.

Qualcuno dei nostri nonni era ancora capace di prevedere l'arrivo della pioggia o del vento osservando il cielo e il mare. Oggi abbiamo perso anche questo.
Certo oggi le previsioni del tempo le fanno i metereologi e sono sicuramente più precise di quelle dei nonni. Ma il punto non è questo. Il punto è che piano piano abbiamo perso il rapporto con il nostro ambiente naturale.

Più ci circondiamo di cemento e tecnologia, più la natura ci diventa estranea.

L'ultimo bambino nel bosco

Io ho trascorso la mia infanzia giocando nel giardino condominiale assieme a mia sorella e altri bambini. Era considerato un luogo sicuro e i genitori non sentivano il bisogno di sorvegliarci di continuo, al massimo ci chiamavano dal balcone quando era pronta la cena.

Non so quanti altri bambini di oggi possano dire la stessa cosa. Certo avere un giardino in cui giocare in tutta sicurezza era un lusso allora e lo è ancora oggi. Ma - allora come oggi - anche nelle grandi città gli spazi verdi esistono. Eppure pare che negli ultimi 30-40 anni sempre più genitori abbiano scelto di tenere i bambini al chiuso.

Secondo una ricerca inglese, dagli anni '70 a oggi il numero dei bambini abituati a giocare all'aperto si è radicalmente ridotto. Il loro raggio di azione - cioè lo spazio attorno alla casa in cui sono liberi di muoversi senza la sorveglianza dei genitori - si è ristretto del 90%. Nel 1971 l'80% dei bambini tra i 7 e gli 8 anni andava a scuola a piedi, spesso da solo o in compagnia di amici; oggi meno del 10% lo fa. Più della metà dei bambini della precedente generazione poteva giocare nella natura, adesso solo 1 su 10.

Negli ultimi decenni sono aumentati anche alcuni specifici problemi dei bambini: l'obesità infantile, i disturbi emotivi, e a un numero crescente di bambini vengono prescritti psicofarmaci.

Qualcuno ha cominciato a domandarsi: non ci sarà forse un legame tra queste due cose? Non sarà che tenere i bambini agli arresti domiciliari faccia male alla loro crescita fisica ed emotiva?


Un bambino nel bosco


Non sarà che giocare all'aperto, arrampicarsi sugli alberi, sbucciarsi le ginocchia, rubare le albicocche al contadino, rincorrere le lucertole, fa un gran bene?

Negli anni hanno cominciato a sommarsi i risultati di ricerche che dicono proprio questo. I bambini hanno bisogno di natura: stare all'aperto, giocare senza l'intervento degli adulti, e misurarsi con l'ambiente naturale.

Richard Louv, un giornalista e saggista americano ha studiato a fondo questa faccenda e ha scritto il libro L'ultimo bambino nei boschi (gran bel titolo secondo me).

Louv ha inventato un'espressione: disturbo da carenza di natura. Non è da intendersi come una diagnosi medica, ma un modo per segnalare l'esistenza di un problema: per gli esseri umani - che, non dimentichiamo, sono parte della natura - perdere il contatto con l'ambiente naturale non è sano. Paghiamo dei costi. E questi costi al momento li stanno pagando soprattutto i bambini.

Gli studi condotti negli ultimi 15 anni mostrano come svolgere attività all'aperto in ambienti verdi aiuti i bambini in molti modi diversi:

  • favorisce la creatività e la capacità di risolvere problemi
  • rafforza le abilità cognitive
  • migliora i risultati scolastici
  • riduce i sintomi del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD)
  • rende i bambini più attivi e propensi a fare attività fisica
  • migliora la vista
  • favorisce l'autodisciplina
  • riduce lo stress

Gli adulti e la vitamina N

Richard Louv più di recente ha scritto un altro libro: The Nature Principle, questa volta dedicato agli adulti.

La sua tesi è che più tecnologia c'è nella nostra vita, più abbiamo bisogno di vitamina N, cioè la natura. Questo vale sia come individui che come società. Louv si augura che in futuro sapremo disegnare le case, i luoghi di lavoro, i quartieri e le città in modo da integrare al loro interno sempre più elementi naturali.

D'altra parte ricerche hanno dimostrato come basti aggiungere un paio di piante in vaso dentro gli uffici e la gente lavora più volentieri, e che negli ospedali i pazienti che possono vedere gli alberi dalle loro finestre guariscono più in fretta.

Atri studi condotti su persone con problemi di ansia, di depressione, e altre forme di disagio psicologico, sembrano indicare che ampie dosi di natura aiutano tanto quanto gli psicofarmaci.

E ancora che gli ambienti naturali stimolano la capacità di prestare attenzione, di pensare con chiarezza, di essere creativi.

Se ti interessa una carrellata di studi scientifici che dimostrano gli effetti benefici della natura sulla salute psico-fisica puoi consultare queste pagine curate dall'associazione americana di architetti del paesaggio.

Ma la di là degli studi scientifici credo che tutti noi abbiamo sperimentato direttamente il potere rasserenante della natura. Ognuno con le sue preferenze. Per esempio su di me fa un grande effetto il mare: sono attratta dall'acqua, dall'orizzonte aperto, dal blu che si mischia ad altro blu. Mi fa stare bene.


Il mare a Punta Baffe, panorama

La costa ligure - L'immagine è di Bruno H. Michele sul sito Imaginum Faber

Una scuola nella foresta

Nel libro di Richard Louv The Nature Principle sono raccolte diverse testimonianze di persone che sono state trasformate dal contatto con la natura.

Tra tutte mi piace riportare qui quella di Reyna Oleas, un'esperta in gestione delle risorse naturali che vive a Santa Cruz, nelle isole Galapagos.

Le Galapagos sono un posto decisamente straordinario: si trovano a oltre mille chilometri di distanza dall'Ecuador continentale e sono tra i luoghi più ricchi di biodiversità di tutto il mondo. Sono famose anche perché Charles Darwin studiò a fondo la grande varietà di specie viventi che si trova lì e queste osservazioni furono fondamentali per formulare la sua teoria della selezione naturale.

Queste isole di origine vulcanica hanno sempre avuto poco a che fare con l'uomo. Pare siano tra i pochissimi posti al mondo a non avere una popolazione indigena. Oggi solo il 3% del territorio delle isole è abitato, il restante 97% è riserva naturale protetta.

Leone marino Galapagos

Un leone marino delle isole Galapagos - Immagine di Derek Keats via Flickr

Reyna Oleas è direttrice della scuola Tomas de Berlanga. I ragazzi che studiano lì hanno un grande privilegio: possono guardare la natura attorno a loro in qualsiasi momento. La scuola infatti non ha pareti, solo un muretto alto forse un metro o poco meno che lascia libera la vista nel bosco attorno. È poco più di un rifugio immerso nel verde.

Reyna si è trasferita alle Galapagos nel 2007, prima viveva in una grande città. A Richard Louv che l'ha intervistata, ha raccontato questo.

Vivere qui mi ha reso più acuta e consapevole. Prima la mia vita era dormiente. Non intendo addormentata, intendo dominata dalla distrazione. Scrivi e-mail, guardi la TV, rispondi al telefono. Tieni la testa in così tanti canali. Il tuo corpo potrebbe collassare e nemmeno te ne accorgi. Io fumavo due pacchetti di sigarette al giorno. Ero stressata. Non stavo bene.

Qui sono guarita, ho smesso di fumare. Quando c'è un problema da affrontare, lo affronti. Le soluzioni arrivano in modo più naturale. Ora sono in grado di separare il vero problema dalle interferenze. Prima quando avevo un problema ogni cosa mi sembrava enorme. Adesso se succede qualcosa mi dico: ok, le cose stanno così, cosa possiamo fare per affrontarle?

Una bella testimonianza, non è vero? A me ricorda tanto l'esperienza di mindfulness: essere presenti, accettare la realtà per quello che è, sentire il corpo. Forse stare in mezzo alla natura può aiutarci nella ricerca di quella condizione di calma, stabilità, presenza e accettazione che si cerca con la meditazione.

Dove non può la natura...

All'inizio di questo articolo ti ho raccontato la storia degli indigeni delle isole Andamane che sono sfuggiti allo tsunami grazie alla loro capacità di interpretare i segnali dell'ambiente.
Sono scampati al più grande disastro naturale dell'epoca moderna, ma la loro sopravvivenza è minacciata da qualcosa di altrettanto pericoloso: l'idiozia umana.

I Jarawa, una delle tribù dell'isola, trovano nel loro territorio tutto quello di cui hanno bisogno: vivono di caccia, pesca, e raccolgono i frutti della foresta. Quindi starebbero anche bene, se non fosse che nel bel mezzo della loro terra passa una strada sempre piena di turisti. E perché passano da lì? Perché fanno i safari umani: sperano di incontrare qualche Jarawa e farsi qualche bella foto. Questo divertimento solo apparentemente innocuo - oltre a essere un po' incivile - è anche molto dannoso per gli indigeni perché i turisti portano malattie che il loro sistema immunitario non ha mai incontrato. Per esempio il morbillo, che nel 2006 ha causato una vera epidemia tra i Jarawa. Per fortuna se la sono cavata, ma il morbillo in passato ha già annientato altre popolazioni tribali.

L'organizzazione internazionale Survival si occupa di promuovere i diritti delle popolazioni indigene di tutto il mondo, cercando di evitarne lo sterminio. Sul loro sito è attiva una campagna per fare pressione sul governo indiano affinché chiuda quella strada e proibisca i safari umani. Se vuoi partecipare alla campagna anche solo con una semplice e-mail trovi altre informazioni qui: ferma i safari umani.

Se ti va raccontami nei commenti che rapporto hai tu con la natura, i tuoi luoghi preferiti, e dove sei andato in questa estate rovente.

A presto :)