La formula della felicità, se esiste, deve essere nascosta all'interno di una serie di armadietti chiusi a chiave in un ufficio dietro Fenway Park, a Boston.

Lì dentro sono raccolti i dati dello studio longitudinale più lungo della storia. Oltre 75 anni di informazioni, questionari, esami medici, test psicologici, per capire quali sono gli ingredienti fondamentali per avere una vita piena, soddisfacente e felice, inclusa una vecchiaia serena e in salute. Si chiama Harvard Study of Adult Development, un programma di ricerca cominciato nel 1937 e non ancora terminato.

Gli studi longitudinali sono fonte di informazioni molto importanti. Si tratta infatti di seguire la vita delle persone anno dopo anno, di registrare nel tempo le informazioni, per poi poterne trarre delle conclusioni. Uno studio longitudinale fornisce informazioni molto attendibili, perché permette di osservare la vita vera delle persone nel corso del tempo, il che è molto diverso dal chiedere alle persone di ricordare, o di esprimere valutazioni soggettive sui fatti della vita.
Sono però studi difficili da realizzare: necessitano di tempi lunghi prima di produrre risultati, ed è facile che si interrompano perché vengono a mancare i fondi o perché i ricercatori perdono di interesse.





L'Harvard Study of Adult Development invece è riuscito a sopravvivere, e alla fine, dopo quasi ottant'anni, qualcosina sul segreto per avere una vita felice ce l'ha insegnata.

Nel 2008 il giornalista americano Joshua Wolf Shenk ha trascorso oltre un mese consultando quei dati e intervistando lo psichiatra George Vaillant, direttore dello studio. Ne è uscito un bellissimo (e lunghissimo) articolo pubblicato (in inglese) su The Atlantic dal titolo What Makes Us Happy? che ripercorre le tappe principali dello studio. Cominciando dall'inizio della storia.

4 senatori e un presidente

A cominciare lo studio fu un medico di nome Arlie Bock, allora direttore dell'istituto di fisiologia di Harvard.

Bock non era molto soddisfatto di come procedeva la scienza medica, che a suo parere prestava troppa attenzione alle persone malate, studiando sintomi e patologie, ma così facendo perdeva di vita la questione fondamentale: cosa è necessario per al vivere meglio? Così, per cercare di rispondere a questa domanda, mise assieme una squadra di medici, antropologi, psichiatri, psicologi e sociologi con l'obiettivo di studiare delle "normali" vite di successo.

E dove poteva andare a scovare delle promettenti giovani vite di successo da seguire nel loro sviluppo? Laddove già si trovava, ovvero ad Harvard, la più prestigiosa ed esclusiva università americana.

Furono infatti selezionati per entrare a far parte dello studio 268 studenti del secondo anno, tutti uomini perché a quell'epoca ad Harvard potevano entrare solo i maschi. L'idea era quella di seguire la loro vita passo passo e scoprire, nel corso del tempo, quali erano i veri ingredienti delle vite di successo.

Negli anni sessanta, molti di quegli studenti avevano raggiunto posizioni importanti nella società americana. C'erano imprenditori, dirigenti, uomini politici, tra cui 4 senatori. Le loro identità sono sempre rimaste segrete, con due sole eccezioni. Si sa che fecero parte dello studio il giornalista Ben Bradlee, che fu direttore del Washington Post durante lo scan­dalo Watergate, e John Fitzgerald Kennedy, 35esimo presidente degli Stati Uniti, assassinato a Dallas nel 1963. Il fascicolo di Kennedy fu ritirato dallo studio, e secretato fino al 2040.

Insomma molte vite soddisfacenti e di successo, almeno a uno sguardo superficiale, ma, se l'obiettivo era quello di identificare gli ingredienti del successo, allora si deve dire che lo studio fu un fallimento.

Dall'enorme mole dei dati raccolti non era davvero possibile trovare una regola, una lista di cose da fare e cose da non fare per essere felici e di successo.

Alcune delle vite seguite dai ricercatori sembravano seguire il copione: carriere brillanti, matrimoni e famiglie felici. Altri invece si ritrovavano con vite tormentate, fallimenti, problemi di alcolismo, disturbi mentali.

Secondo lo psichiatra George Vaillant, che nel 1972 è diventato il direttore dello studio, le vite di queste persone, osservate da vicino e seguite nel corso degli anni, si rivelavano troppo grandi, troppo anomale, troppo piene di sfumature e contraddizioni per poterne trarre un modello di vita di successo. Erano vite complesse, come è sono complesse le vite di tutti noi; erano storie e come storie andavano trattate e studiate.

Non è quello che ci accade...

Nel corso degli anni, George Vaillant - mano a mano che i soggetti del suo studio progredivano nella vita e invecchiavano - si è interessato di aspetti diversi, scrivendo al riguardo numerosi libri.

Riprendendo la teoria dell'adattamento da Anna Freud, Vaillant ipotizzò che la chiave per capire il successo o il fallimento delle vite che andava studiando fosse nella modalità di risposta alle difficoltà. Non era tanto importante quali o quanti problemi i soggetti dello studio incontrassero nella vita; era molto più importante il modo in cui avevano reagito.

La felicità, secondo Vaillant, è una questione di adattamento: dipende cioè in buona parte da come ognuno di noi risponde al dolore, al conflitto, all'incertezza. Dipende dai nostri meccanismi di difesa. Vaillant dice che sono l'equivalente mentale di alcuni meccanismi fisiologici di base. Se per esempio ci tagliamo, il nostro corpo fa sì che il sangue si coaguli attorno alla ferita, in modo da limitare l'emorragia; allo stesso modo, quando ci troviamo davanti a un problema o a una situazione dolorosa, la nostra mente reagisce in modo automatico, si difende, cercando di riparare o di limitare il danno.

Non tutti i meccanismi di difesa però sono uguali. Alcuni sono adattamenti sani: ci proteggono e ci aiutano davvero ad affrontare e superare le situazioni dolorose. Altri invece ci proteggono sì dal dolore, ma creano altri squilibri e altri problemi, a volte anche più gravi di quelli che inizialmente avevano cercato di riparare.

Per esempio - seguendo la classificazione di Vaillant - possiamo tentare di reagire a una situazione problematica con un eccesso di razionalizzazione, oppure tentando di rimuovere i pensieri e le emozioni negative, spazzandole sotto il tappeto. Questo è un esempio di meccanismo di difesa immaturo, che apparentemente ci difende, ma non ci aiuta veramente.

Al contrario sono modalità di adattamento mature, quelle migliori dal punto di vista della salute mentale, l'umorismo, la capacità di proiettarsi nel futuro progettando come reagire alle avversità future, la sublimazione - cioè la capacità di incanalare le energie negative in modalità costruttive (per esempio nello sport o in qualche attività creativa) - e l'altruismo.

Le nostre modalità di adattamento sono in buona parte automatiche e non consapevoli. Non abbiamo di certo colpa se tendiamo a reagire alle difficoltà nel modo sbagliato. Però, sapere queste cose ci può aiutare la prossima volta che ci troviamo davanti a un problema. Per esempio sono sicura che tutti noi conosciamo, anche solo per sentito dire, persone che hanno reagito a grandi tragedie con l'altruismo. Aiutare gli altri è uno dei modi più costruttivi che esistono per restituire alla propria vita un senso dopo un evento tragico, o un momento difficile che ha rotto il nostro equilibrio.

La buona notizia è che, seguendo gli uomini dello studio, Vaillant si è accorto che la capacità di reagire alle difficoltà con meccanismi di difesa maturi tende a migliorare con l'età: più si cresce più si impara a utilizzare l'umorismo, o l'altruismo, o la sublimazione davanti ai rovesci della vita. Invecchiare, se non altro, qualche lato positivo ce l'ha.

Gli adattamenti maturi sono una sorta di alchimia: rappresentano la capacità di trasformare le difficoltà in oro. L'oro dei rapporti umani, della creatività, dell'autorealizzazione.

George Vaillant usa la metafora - bellissima secondo me -
dell'ostrica per spiegare la forza dei meccanismi di difesa costruttivi.

Questi meccanismi sono analoghi alla grazia involontaria con cui un'ostrica, avendo a che fare con un irritante granello di sabbia, crea una perla. Anche gli esseri umani, quando hanno a che fare con qualcosa di irritante, si comportano in modo inconscio ma spesso creativo.

L'amore sopra tutto

Fino a qualche mese fa, dei 268 uomini originariamente reclutati per lo studio, ne erano rimasti vivi 19, tutti ormai ultra novantenni. George Vaillant è ancora direttore emerito dello studio, mentre il timone è passato in mano allo psichiatra Robert J. Waldinger che sta portando ancora avanti la ricerca coinvolgendo la seconda generazione: i figli e i nipoti del campione originario (donne comprese, stavolta).

Ci si può domandare se dopo oltre ottant'anni di studi i ricercatori siano o meno giunti a qualche conclusione definitiva su cosa sia davvero importante per una vita piena, soddisfacente e in salute.

La risposta è sì: esiste un elemento che più di ogni altro è in grado di determinare il nostro livello di felicità e soddisfazione nella vita, e sono le nostre relazioni. L'amore, l'affetto, l'amicizia, la partecipazione, la connessione, i legami. Sono questi gli ingredienti maggiormente capaci di proteggere la nostra salute fisica e mentale.

Ne era già convinto George Vaillant, che nel 2008 alla domanda: «cos'ha imparato dai partecipanti allo studio?» ha risposto: «l'unica cosa che conta veramente nella vita sono i rapporti con gli altri».

E ne è convinto anche l'attuale direttore dello studio, Robert J. Waldinger, come ha spiegato nel suo Ted Talk nel 2015 (uno dei 25 Ted Talk più visti di sempre).

La domanda è: se adesso dovessi investire sul te stesso migliore del futuro, dove impiegheresti il tuo tempo e le tue energie?

Nel lavoro? Nella sicurezza economica? Nelle tue passioni? Nella realizzazione dei tuoi sogni?

Queste sono le risposte più comuni, ma quello che ci insegna la vita degli uomini dell'Harvard Study of Adult Development è un'altra cosa. Meglio investire nelle relazioni affettive, nell'amore, nell'amicizia, nella famiglia, nei legami con la comunità. Buone relazioni con gli altri ci rendono più felici e in salute.

Waldinger riassume il messaggio chiave in tre punti.

  1. Essere connessi agli altri ci fa bene. Le persone che sviluppano i rapporti migliori con la famiglia, con gli amici e con la comunità, godono di una salute migliore e vivono più a lungo rispetto alle persone più sole e prive di connessioni sociali.

  2. Ma, lo sappiamo, ci si può sentire soli in una folla, o in un matrimonio. Infatti ciò che conta è la qualità delle relazioni, non la quantità. Vivere in mezzo ai conflitti è nocivo per la nostra salute. Meglio un divorzio di un matrimonio in cui ci si odia. L'obiettivo è riuscire ad avere legami e affetti sinceri (non essere semplicemente circondati di persone).

  3. Avere buone relazioni affettive non protegge solo il nostro corpo, ma anche il nostro cervello. Chi ha legami più solidi, e sa di potere contare su qualcuno, è anche più protetto dalla perdita della memoria e dal declino celebrale.

Insomma la correlazione tra la qualità dei rapporti affettivi e la qualità della vita è molto forte.
Ma allora, una buona dieta, l'attività sportiva, la nostra meditazione quotidiana, la realizzazione professionale, non contano niente? Certo che contano, e facciamo bene a impegnarci su questi fronti, ma le relazioni autentiche, gli affetti veri, vengono prima.

Forse questa risposta non ci piace molto perché prendersi cura delle relazioni è difficile e faticoso. È un lavoro che dura tutta la vita, ma probabilmente è quello che ci ripaga maggiormente.

Possiamo cominciare a farlo fin da subito.
Non sono necessarie grandi rivoluzioni: possiamo dedicare un po' di tempo in più alle persone vicine invece che alla TV o alle moltitudini dei social. Possiamo dare una rinfrescata a una relazione un po' spenta facendo qualcosa di nuovo insieme. Possiamo rimetterci in contatto con un familiare che non sentiamo da anni.

Attenzione quindi quando siamo molto proiettati verso i nostri obiettivi di lavoro o di realizzazione personale: non dovrebbero diventare motivo per trascurare gli affetti. È questione di sapere stabilire le giuste priorità, anche quando ci sembra che certe faccende siano più urgenti o più importanti.

Chiudo con il Ted Talk di Robert Waldinger.

È un bel discorso, non è vero? Si capisce che Waldinger è molto appassionato del suo studio ;)
Fammi sapere cosa ne pensi.
Alla prossima!