La legge del contrario. Stare bene con se stessi senza preoccuparsi della felicità di Oliver Burkeman.
Metropolitana di Londra. C'è un signore sulla quarantina, stempiato, dall'aspetto ordinario. Nulla che lasci presagire che si tratti di uno svitato o qualcosa del genere. Poco prima che il convoglio rallenti per fermarsi alla stazione di Chancery Lane, l'uomo si schiarisce la voce e annuncia: «Chancery Lane!»
Non ha parlato molto forte. Il signore seduto davanti alza la testa sopra il giornale, lo guarda incuriosito e subito dopo torna a leggere.
Poco prima della stazione successiva l'uomo ripete il suo annuncio: «Holborn!»
Stavolta ha parlato più forte, due o tre persone si sono voltate a guardarlo.
L'uomo continua a dire a voce alta il nome delle stazioni mano a mano che il convoglio prosegue la sua corsa. Poi, come se niente fosse, scende dal treno con un bel sorriso stampato in faccia.
Questo signore è Oliver Burkeman, il giornalista inglese autore del libro La legge del contrario. Si è comportato in modo così bizzarro perché stava facendo un esercizio di smantellamento della vergogna, seguendo il suggerimento di uno psicologo di fama mondiale di nome Albert Ellis.
Burkeman ha appena scoperto di essere perfettamente in grado di gestire il disagio e l'imbarazzo provocato dalla situazione. Quando aveva cominciato l'esercizio si era sentito molto agitato. Si era prefigurato di trovarsi subito additato come pazzo furioso e di sprofondare dalla vergogna. Invece non è successo niente. Le persone si sono limitate a guardarlo con un po' di curiosità e lui, stazione dopo stazione, si è sentito sempre più forte e a suo agio.
Lo scenario peggiore era infinitamente meno terribile di quanto avessi immaginato. La mia paura dell'imbarazzo era fondata su idee profondamente irrazionali su quanto sarebbe stato atroce se la gente avesse pensato male di me. La verità è che nessuno mi sta guardando con aria apertamente beffarda e ostile, soprattutto perché sono tutti occupati a farsi i fatti propri.
Lo psicologo Albert Ellis consigliava questo tipo di esercizi ispirandosi addirittura al filosofo romano Seneca e alla sua premeditazione dei mali : immaginare, o addirittura creare, lo scenario peggiore, per scoprire che sì, sarebbe senza dubbio sgradevole, ma non atroce né terribile.
Se - diceva Seneca - la tua paura più grande è perdere la ricchezza, non cercare di convincerti che non accadrà mai. Al contrario, fai come se fosse già successo.
Trascorri qualche giorno contentandoti di cibo scarso e cattivo, mettiti una ruvida veste e poi chiediti: ma è proprio questo che faceva tanta paura?
Le cose davvero atroci da sopportare sono molto poche. Per il resto passiamo la vita a temere cose che siamo perfettamente in grado di affrontare, se mai si verificassero.
La via negativa alla felicità
L'episodio della metropolitana è una delle tappe di un viaggio che Oliver Burkeman intraprende seguendo un'idea: spesso l'origine dei nostri problemi sta nel fatto che vogliamo evitare a ogni costo di averli. Ci affanniamo a eliminare la negatività dalla nostra vita, dai pensieri e dalle emozioni, e in questo tentativo disperato di cercare una felicità fatta di assenza di disagio finiamo con lo sprofondare sempre di più nell'infelicità.
Un'idea molto simile a quella dello psicologo Russ Harris nel libro La trappola della felicità.
Al mito dell'ottimismo a ogni costo, Burkeman contrappone una via negativa alla felicità, un antidoto contro il pensiero positivo. Il libro infatti in inglese si intitola: The The Antidote: Happiness for People Who Can't Stand Positive Thinking / L'antidoto: felicità per persone che non sopportano il pensiero positivo.
Questa via negativa alla felicità comporta apprezzare l'incertezza, familiarizzare con il fallimento e perfino valorizzare la morte. Insomma un atteggiamento radicalmente diverso nei confronti di tutte le cose che solitamente ci sforziamo di tenere lontane dalla nostra vita.
Burkeman ricostruisce questa via negativa alla felicità mettendo assieme idee e suggestioni anche molto diverse tra loro: la filosofia degli stoici, il buddismo, la pratica del memento mori, il pensiero di personaggi come Eckhart Tolle, l'autore del best seller Il potere di adesso.
Quello di Burkeman è un viaggio non solo metaforico, ma anche reale, fatto di incontri, interviste ed esperienze vissute in prima persona. L'esercizio della metropolitana, un viaggio a Nairobi, nello slum più povero di tutta l'Africa, una visita al museo del fallimenti (ebbene sì, esiste), fino in Messico per osservare da vicino le celebrazioni del giorno dei morti.
In ognuna di queste esperienze c'è una traccia, un indizio, un pezzetto del puzzle che aiuta a ricomporre questa strada alternativa alla felicità. Adatta per chi non ne può più del pensiero positivo, dell'ottimismo imposto, degli inviti a eliminare la parola impossibile dal vocabolario o dell'antico e mai tramontato volere è potere.
Non è che pensare positivo sia di per sé sbagliato, anzi. Il problema nasce quando si cerca di radicalizzare una filosofia di vita che in nome del pensiero positivo finisce con il nascondere la realtà delle cose.
I danni del pensiero positivo
Burkeman cita diversi studi e ricerche che sembrano dimostrare come l'idea di felicità basata sulla rimozione sistematica delle emozioni e dei pensieri negativi non faccia poi tanto bene.
Non è solo che non funziona, talvolta è pure dannosa.
Cita ad esempio gli studi della psicologa Gabriele Oettingen, di cui ho già parlato nell'articolo sul pensiero positivo. Lei ha dimostrato che immaginare di avere già ottenuto un obiettivo, invece di aiutarci a perseguirlo davvero, ci rende meno attivi ed efficaci sul piano della realtà. Inganniamo la nostra mente con l'idea di avere già quello che vogliamo e va a finire che non ci diamo abbastanza da fare per ottenerlo davvero.
Poi ci sono gli studi di una psicologa canadese, Joanne Wood, sull'efficacia delle affermazioni positive, cioè sulla pratica di ripetere a se stessi frasi incoraggianti del tipo «andrà tutto bene», «mi amo e mi accetto così come sono», «sono bello, intelligente, mi merito il meglio». Joanne Wood con i suoi esperimenti si è accorta che proprio le persone che hanno un'autostima scarsa vengono danneggiate dalla pratica di ripetere questo tipo di frasi. Succede perché il nostro cervello tiene in grande considerazione la coerenza: di solito abbiamo paura di quelle informazioni che entrano in contraddizione con la nostra identità. Ecco quindi che proprio le persone più insicure, se ripetono frasi positive su se stesse, finiscono con il rifiutarle inconsciamente in modo più deciso e alla fine si sentono peggio.
Questo tra l'altro potrebbe essere uno dei motivi per cui molte persone dopo avere partecipato a certi seminari motivazionali, escono accompagnate da un senso di esaltazione che poi con il passare dei giorni non solo svanisce ma si trasforma in umore nero e ulteriore mancanza di autostima.
Insomma ci sono un sacco di indizi che dovrebbero portarci a prendere con le pinze i guru del pensiero positivo: magari ti fanno sentire super man per un paio di giorni, ma poi ti ritrovi a strisciare su per i muri peggio di prima.
Se le argomentazioni degli psicologi non ci bastano, varebbe la pena dare un occhio al libro di Barbara Ehrenreich Smile or Die: How Positive Thinking Fooled America and the World // Sorridi o muori: come il pensiero positivo ha preso in giro l'America e il mondo. L'ipotesi di Barbara Ehrenreich - scrittrice, giornalista e attivista politica - è che l'ottimismo a ogni costo abbia contribuito alla crisi finanziaria che scoppiò negli Stati Uniti nel 2006 e da cui ha preso l'avvio la crisi economica globale nella quale siamo tutt'ora.
Una delle cause meno riconosciute dell'odierna crisi finanziaria globale, sostiene l'autrice, è stata una cultura imprenditoriale americana nella quale la sola idea di contemplare l'ipotesi del fallimento - e tanto più parlarne pubblicamente - era considerato un imbarazzante passo falso. Una cultura che, alimentando il narcisismo ed esaltando l'ambizione, toglieva ai banchieri la capacità di distinguere tra sogni egocentrici e risultati concreti. Nel frattempo, gli acquirenti immobiliari ritenevano di potere soddisfare qualsiasi loro capriccio (quanti di loro avevano letto "The Secret" di Rhonda Byrne, il cui messaggio è esattamente questo?) e accendevano mutui che non erano in grado di sostenere.
Fragili e felici
Uno degli aspetti chiave di questa via negativa alla felicità è l'accettazione della vulnerabilità e dell'insicurezza come chiave per il benessere emotivo.
Da sempre andiamo a caccia di sicurezze. Ogni volta che succede un incidente, un disastro, un attentato, ci troviamo pieni di sgomento a domandarci: cosa non ha funzionato? Perché non siamo in grado di avere il controllo totale?
Certo, investire in sicurezza non è sbagliato, ci mancherebbe, ma serve anche la consapevolezza: la protezione totale non esiste. Possiamo - e dobbiamo - fare del nostro meglio, ma allo stesso tempo dobbiamo anche sapere che il rischio che le cose vadano storte può essere ridotto ma non eliminato.
Nello stesso modo cerchiamo di costruirci attorno una vita che poggi su solide fondamenta, che ci metta al riparo dal rischio di soffrire. Cerchiamo certezze: nell'amore, nella famiglia, nel lavoro, nei soldi, nella cura della salute.
Se questo bisogno di sicurezza si trasforma in ossessione finisce con il nascondere la natura stessa della nostra vita che è fatta di cambiamento e in ultima istanza di vulnerabilità.
La sicurezza non esiste. Possiamo solo fare del nostro meglio per proteggere noi stessi e i nostri cari, ma in ultima istanza o accettiamo il rischio o ci paralizziamo.
È un effetto paradossale, controintuitivo finché vuoi, ma profondamente vero: la vera forza sta nell'accettare la debolezza. Solo quando siamo - e ci percepiamo - vulnerabili ed esposti al dolore allora possiamo anche aprirci alla felicità.
Se cerchi la felicità nell'essere sempre protetto dal dolore, allora hai perso, sarai per sempre infelice perché per proteggerti dal dolore devi anche chiuderti a ogni fonte di gioia.
Questo lo spiega perfettamente anche Brené Brown, nel libro I doni dell'imperfezione.
Non possiamo soffocare selettivamente le emozioni. Non possiamo dire: le emozioni cattive sono queste: la vulnerabilità, il dolore, la paura, la vergogna, la delusione; io non le voglio.
Se scegli di non volerle molto probabilmente stai solo cercando di diventare insensibile e questo - ammesso che tu ci riesca - ti impedirà di provare gioia, amore, serenità, felicità.
Burkeman cita un passaggio molto bello dello scrittore britannico C.S. Lewis.
Amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili. Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua e magari anche a spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno a un animale. Proteggetelo e avvolgetelo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno, o nella bara del vostro egoismo. Ma in quello scrigno - al sicuro, nel buio, immobile, sotto vuoto, esso cambierà: non si spezzerà; diventerà infrangibile, impenetrabile, irredimibile.
Tutta la retorica dell'ottimismo, del pensiero positivo, del ce la faremo sicuramente, se vuoi puoi, dipende tutto da te, alla fine prefigura un'idea di felicità in cui esistono solo certezze. Tutto va secondo i nostri desideri, i margini di rischio sono ridotti, le emozioni e i pensieri negativi vengono sistematicamente rimossi ed evitati. Il fallimento è contemplato solo come una tappa verso il successo, ma la possibilità che si possa fallire e basta non viene presa in considerazione.
Sono tutti modi per cercare di costruire certezze laddove al contrario può esistere solo il dubbio, l'incertezza, la vulnerabilità.
Sentirsi sicuri e vivere davvero la vita, in un certo senso, sono due condizioni incompatibili. Non puoi ottenere la sicurezza assoluta più di quanto un'onda possa uscire dall'oceano
La negatività come tecnica
La conclusioni che tira Burkeman alla fine del suo viaggio sono delle non conclusioni. La via negativa alla felicità è una prospettiva, o forse una tecnica, che possiamo applicare di tanto in tanto per ricordare a noi stessi alcuni fatti fondamentali della vita. Non è l'opposto del pensiero positivo e non ti dice come devi vivere e cosa devi pensare o provare per essere felice.
La capacità negativa non è sempre superiore al suo opposto. L'ottimismo è meraviglioso, gli obiettivi possono talvolta rivelarsi utili, e persino il pensiero positivo e la visualizzazione positiva hanno i loro vantaggi. Il punto è che nel rapportarci alla felicità abbiamo sviluppato l'abitudine di sopravvalutare sistematicamente la positività e la dimensione del fare, sottovalutando la negatività e la dimensione del non fare insite per esempio nell'accettazione dell'incertezza e della vulnerabilità.
Per assumere questa prospettiva non dobbiamo quindi per forza abbracciare la filosofia stoica o il buddhismo. Basterebbe ricordarci sempre che il successo non è garantito (e nemmeno necessario), che il fallimento, il dolore e la perdita fanno parte della vita stessa, che possiamo imparare a lasciare andare, invece di restare ossessivamente attaccati ai desideri, alle ambizioni, al miglioramento.
La capacità negativa è l'abilità che metti in campo quando ti dedichi a un progetto - o alla tua vita - in assenza di obiettivi specifici, quando hai il coraggio di riflettere sui tuoi insuccessi, quando rinunci a neutralizzare l'insicurezza e quando lasci perdere le tecniche motivazionali per darti da fare sul serio.
Certo, puoi decidere di votarti allo stoicismo (...). Oppure potrai avere un'esperienza alla Eckhart Tolle, di quelle che ti ribaltano la vita. Ma puoi anche trattare queste idee come cassette portautensili dalle quali estrarre gli attrezzi che ti servono. Ognuno di noi può diventare moderatamente stoico, un po' più buddista o praticare il memento mori con più frequenza: a differenza di tanti metodi di self help che pretendono di essere manuali di vita onnicomprensivi, la via negativa alla felicità non è un pacchetto "tutto o niente"
In definitiva, il culto dell'ottimismo cerca di essere un antidoto contro l'incertezza: rifiuta il dubbio, la vulnerabilità, i timori, nella pretesa di offrire certezza e una felicità perfetta e duratura.
Al contrario, il maggior pregio della via negativa alla felicità - dice Burkeman - è questo: rimette in gioco il mistero.
La legge del contrario. Stare bene con se stessi senza preoccuparsi della felicità di Oliver Burkeman.