Libro Zen in the city di Paolo Subioli

Ciao.
Sì, dico a te che stai leggendo.

Non so come sei capitato qui, però so per certo che in questo momento sei davanti allo schermo di un computer, di un tablet, di uno smartphone. Seduto a una scrivania o forse più rilassato sul divano o addirittura sul letto. O chissà, su un treno, un autobus, una metropolitana.

Ovunque tu sia ti chiedo di fare una cosa: smetti di leggere.

Prenditi una pausa.

Per prima cosa verifica in che posizione è il tuo corpo. Sei comodo? Rilassato? Sciogli un attimo le spalle e mettiti a tuo agio.
Poi fermati. Smetti di leggere e fai tre respiri.

Pronto?
Ora.

Respira sei on line calligrafia di Tich Nath Han

   Respira: sei on line. Calligrafia di Tich Nath Han

Se ti sei fermato davvero il tempo di tre respiri forse ti sei accorto di alcune cose.

Per esempio potresti avere osservato che la tua mente era un po' riluttante a fermarsi, e scalpitava. Voleva continuare a leggere, o forse voleva qualcosa d'altro da consumare, perché non è abituata a stare senza fare niente nemmeno il tempo di tre respiri.

Forse fare questi tre respiri ti ha fatto sentire bene. Ti sei sentito più a contatto con te stesso. Hai assaggiato, anche se per poco, una qualità diversa del tuo stare qui e ora davanti a questo schermo.

O forse ancora, l'attenzione che hai rivolto al corpo è stata benefica. Facendoci caso ti sei accorto che la postura era scorretta, o che stavi contraendo qualche muscolo. E questi tre respiri ti sono serviti a sciogliere qualche tensione.

Tre respiri è uno dei tanti esercizi che trovi nel libro di Paolo Subioli: Zen in the city. L'arte di fermarsi in un mondo che corre.

Ce ne sono più di 70, da praticare in ogni luogo e in ogni momento.

È un manuale di piccole meditazioni adatte alla città e alla comunicazione digitale. Ti insegna a ritagliare isole di consapevolezza nel corso della giornata anche se sei pieno di impegni, devi correre di qua e di là e magari vivi iperconnesso tra web, social network, email e tutte quelle cose lì :)



Meditazione è stare seduti a guardare scorrere il traffico

La mente è spesso iperattiva: scalpita e cerca di portarci lontano. Ha inquietudini, desideri, speranze, preoccupazioni, attaccamento, repulsioni.

Nel proliferare dei pensieri diventa normale per noi reagire agli stimoli in modo automatico, senza grande consapevolezza. A malapena ci accorgiamo delle emozioni che abitano il corpo. Anzi qualche volta a malapena ci accorgiamo di averlo, un corpo, finché questo non si decide a farsi sentire con qualche dolorino.

Siamo preda di un sacco di reazioni automatiche. Uno mi taglia la strada, lo maledico e al contempo contraggo lo stomaco dal nervoso. Un collega è sgarbato e a istinto mi ritraggo e mi isolo da tutti. Passo tutto il giorno al computer cercando di finire un lavoro con l'ansia della scadenza, e non mi accorgo di quanto sto contraendo spalle e collo. E poi mi stupisco di avere problemi di cervicale.

Seduti in meditazione proviamo a mettere un argine a tutto questo. Cerchiamo di allenare la nostra capacità di riconnetterci al presente.

Oh guarda: il mio corpo è qui, il mio respiro è qui. Io esisto qui e ora.

Mentre meditiamo cerchiamo di riunire il corpo e la mente, che spesso viaggiano su due binari separati. E lo facciamo grazie al potere calmante del respiro.

Nella meditazione cerchiamo di non pensare. Non per cercare uno stato di mente vuota. Piuttosto cerchiamo di fare in modo che la mente sia piena del solo momento presente.

Nel fare questo però ci accorgiamo di non esserne capaci. I pensieri comunque insorgono, vanno e vengono. Stare concentrati a lungo sul respiro è difficile.

Il nostro compito allora non è quello di rimproverarci per non essere capaci. Piuttosto proviamo a intrattenerci con i pensieri giusto il tempo di riconoscerli, e poi lasciamoli andare con un saluto benevolo, come se fossero amici incontrati per caso lungo la via.

In questo movimento apprendiamo molte cose su come funziona la mente. Capiamo che è nella sua natura portarci lontano da qui e ora. E capiamo anche quali sono i pensieri che in questo momento tendono più spesso a tenerci occupati o a preoccuparci.

Mentre ci alleniamo a stare nel respiro possiamo osservare i pensieri come se fossimo seduti a guardare passare il traffico di una strada molto frequentata.

Il semaforo è un maestro zen

La calma, la chiarezza e il contatto con noi stessi che cerchiamo nella meditazione seduta, possiamo cercarli anche in altri momenti della giornata. Possiamo imparare a guardare con occhi diversi i luoghi e le situazioni del quotidiano e cogliere le occasioni per fermarci a fare pratica di consapevolezza.

Il libro Zen in the city insegna proprio questo, a inventarci occasioni e stimoli per portare un po' di consapevolezza nella vita quotidiana.

Si tratta di rompere gli automatismi, disattivare il pilota automatico più volte nel corso della giornata per domandare a se stessi: ci sei? come è messo il tuo corpo? cosa stai provando ora? cosa ti insegna tutto questo?

In giro per la città, nelle strade, nei parchi, in ufficio, in bagno, si nascondono tanti insegnamenti di saggezza.

Il semaforo per esempio è un maestro zen. Incontrarlo rosso a ben vedere è una grande fortuna.

Intanto ci mette a contatto con l'impazienza.

Può darci lo spazio per fare tre respiri e rilassare velocemente spalle e collo.

Ci insegna che non siamo il centro del mondo e che quello che succede, pur interferendo con la nostra vita, non ha niente a che fare con noi: il semaforo alterna il rosso e il verde senza curarsi affatto del nostro passaggio e dei nostri bisogni.

Durante la sosta possiamo anche praticare una meditazione osservando con attenzione il mondo attorno: gli altri automobilisti, i pedoni, la natura che sopravvive e si adatta all'ambiente urbano.

E che dire del bagno? Non c'è giornata, nemmeno la più caotica o la più importante della nostra vita, che non richieda un certo numero di soste in bagno.

Vale dunque la pena di prendere in seria considerazione l'ipotesi che il bagno diventi un luogo primario per il nostro sviluppo personale.

Fare la pipì o lavarsi sotto la doccia sono occasioni per piccole e precise meditazioni. Per prendere contatto con il corpo, ma anche per riflettere sul senso di molte cose che tendiamo a dare per scontate. L'acqua corrente, le tubature, il riscaldamento. Materiali, tecnologia, invenzioni e persone del presente e del passato che rendono possibile per noi oggi fare questa doccia. Nella doccia siamo soli e allo stesso tempo connessi a tutto il mondo.

Quando sei in ufficio, pensa a quella zona franca che è il corridoio. Nel corridoio non possono arrivare email, o telefonate. Il corridoio è tuo amico. Ne puoi approfittare per rallentare il passo praticando una meditazione camminata. Certo non cosi lenta da attirare l'attenzione ma sufficiente per assaporare un istante di sollievo dal caos del lavoro.

Anche il cimitero è un luogo di meditazione. Per prendere confidenza con l'idea della morte, che nella nostra società è praticamente un tabù. Sappiamo che prima o poi ci toccherà, ma ne abbiamo paura e quindi evitiamo di parlarne e di pensarci. E più evitiamo più ci fa paura.

Ecco come, stando in un cimitero, possiamo meditare sul legame profondo che ci lega agli uomini e alle donne del passato. Lo stesso che ci lega a quelli del futuro, le cui condizioni di vita noi tutti stiamo preparando oggi.

Tutto il libro è come una lunga collana di perle. Un ragionamento, una saggezza, un esercizio per ogni luogo e ogni momento.

La parte dedicata alle tecnologie digitali mi è piaciuta particolarmente perché ha messo in chiaro alcuni meccanismi di cui io non ero completamente consapevole.

Metti una sera speciale con lo smartphone

L'estate scorsa, una sera d'agosto, ero all'Arena di Verona per i Carmina Burana .

Su You Tube c'è il video degli ultimi due minuti dello spettacolo - meraviglioso - di quella sera.

Per me era una serata speciale. Un vero lusso.

Lo spettacolo è iniziato e in un attimo mi sono immersa nella musica.

A un certo punto però ho notato che attorno a me alcune persone stavano riprendendo lo spettacolo con i cellulari.

Mi hanno messo la pulce nell'orecchio. Perché non lo facevo anche io?

Penso: ok, bello, mi posso portare a casa alcuni dei momenti più entusiasmanti dello spettacolo. E posso condividere il video con i miei colleghi di lavoro nella chat di whatsapp.

Così prendo il telefono dalla borsa e attivo la telecamera.

In quel momento la mia serata è cambiata. Continuavo a seguire lo spettacolo, certo, ma una parte di me pensava ad altro. A trovare una buona inquadratura. A tenere il braccio fermo il più possibile. A cosa avrebbero detto i miei amici quando avrei condiviso il video. E chissà se sta venendo bene, speriamo che l'audio sia attivo.

Poi magari smettevo, posavo il telefono, ma subito dopo succedeva qualcosa che meritava di essere ripresa. Potevo perdermi la solista vestita d'oro che finalmente si alzava per cantare il suo pezzo? O quella cosa fighissima con i fuochi che si sono accesi all'improvviso?

I carmina Burana all'Arena di Verona

Registrare, fotografare e condividere interferiscono con l'esperienza del momento. Scegliere di farlo ha un prezzo: quello di distaccarsi dalle emozioni e dalla situazione presente.

L'impulso a fotografare ha a che fare con il desiderio di fermare l'esperienza, di cristallizzarla, di congelarla. Perché sappiamo bene che passa. L'incanto di una serata come quella è destinato a svanire e allora cerchiamo di afferrarlo in una foto o in un video.

L'impulso alla condivisione sfrenata è più recente. Nasce con i social network che ci hanno lentamente abituato a fare della nostra vita uno spettacolo. Non mi basta più condividere un'esperienza con le persone che sono con me in quel momento. Voglio includere anche gli altri, quelli che non ci sono. Per sincero spirito di condivisione, talvolta. O per narcisismo altre volte. O più spesso per entrambe le spinte.

Avere sempre a portata di mano una macchina fotografica, ovunque ci troviamo, alimenta la nostra aspirazione a condividere con le persone care ciò che proviamo e farlo istantaneamente. Fino all'estremo di sostituire l'emozione con la condivisione.

Insomma non facciamo in tempo a goderci l'emozione, a lasciare che salga e che poi ci lasci perché subito la dobbiamo congelare in uno scatto e condividerla in un click. E così facendo finiamo per viverla solo a metà

Mettere le emozioni e i sentimenti al riparo dall'invadenza dei dispositivi digitali è un proposito strategico per la nostra vita. Se desideriamo che la nostra sfera intima non vada in frantumi, se vogliamo evitare che raccontare le emozioni ci impedisca di viverle appieno, dobbiamo fare qualcosa. E farlo subito, perché le due principali forze che guidano il nostro comportamento - l'abitudine e l'imitazione degli altri - potrebbero portarci presto a un punto di non ritorno.

Come ci mettiamo al riparo?
Per esempio aspettando un attimo. Lasciamo che l'esperienza sia pienamente conclusa prima di rinchiuderla in una forma - che sia un'immagine o che siano parole - e condividerla.

Il punto non è certo demonizzare la tecnologia e rifiutarla. È diventare consapevoli di quello che ci sta facendo e quindi utilizzarla con accortezza. E di suggerimenti per farlo nel libro che ne sono diversi, tutti assolutamente applicabili e sensati.


Mindfulness e lavoro

Un'ultima perla che non posso fare a meno di citare sono gli approfondimenti sulla mindfulness nei luoghi di lavoro.

Un'azienda come Google - che chiede davvero molto in termini di produttività, creatività e impegno ai propri dipendenti - già da anni ha instaurato un solido rapporto con il maestro Zen Thich Nhat Hanh e ha sviluppato al suo interno un programma di mindfulness e consapevolezza che si chiama Search Inside Yourself (di cui ho già parlato qui sul blog).

Fa parte della cultura aziendale di Google occuparsi del benessere dei suoi dipendenti e della qualità delle relazioni nelle equipe di lavoro.

E non è che Google investa tanto in questi aspetti per pura generosità verso i dipendenti.In verità sanno bene che per essere un'azienda in salute è importante occuparsi anche del benessere delle persone che ci lavorano.

Certo qualcuno critica questo approccio: mindufulness e meditazione sono utilizzati come strumenti per ottenere un risultato. E invece la pratica non dovrebbe avere questo significato (se ti interessa approfondire Paolo Subioli ne ha riparlato proprio qualche giorno fa in questo articolo sul suo blog).

Però in ogni caso a me viene in mente tutta la sofferenza inutile che si produce negli ambienti di lavoro in cui si pensa che la politica del bastone e della carota - assieme al vecchio motto dividi et impera - siano il modo migliore per aumentare la produttività.

Le relazioni lavorative possono farci sentire al centro del mondo, così come annichilirci completamente. In parte dipende dall'ambiente umano in cui abbiamo la ventura di capitare e in parte - anzi in massima parte - da noi stessi, da come viviamo quelle relazioni, dalle aspettative che abbiamo, da quanto tendiamo a confrontarci con gli altri, da quanti semi di sofferenza sono già presenti in noi, alla mercé di chiunque li voglia innaffiare con parole e comportamenti poco consapevoli.

Quanto bene farebbe, alla produttività e alla serenità degli ambienti di lavoro, qualche goccia di consapevolezza in più.

E con questo direi che è il momento giusto per fare altri tre respiri prima di lasciare questo articolo e proseguire ovunque tu vada.

Se poi prima di andartene vorrai trattenerti ancora un istante per lasciare il tuo commento te ne sarò sinceramente grata :)

Zen in the city. L'arte di fermarsi in un mondo che corre, di Paolo Subioli, ed. Mediterranee, 192 pagine, edizione cartacea e digitale.