Nel 1985, Italo Calvino era stato invitato a tenere un ciclo di lezioni ad Harvard, nell'ambito delle prestigiose Charles Eliot Norton Poetry Lectures. Lavorò per questo a sei conferenze dedicate al futuro del libro, interrogandosi su valori, qualità e specificità della letteratura che gli stavano particolarmente a cuore, cercando di collocarle nella prospettiva del nuovo millennio.

Calvino non tenne mai le sue lezioni ad Harvard, morì improvvisamente poco prima di quell'importante appuntamento. Riuscì però a terminare di scrivere cinque delle sei conferenze, che sono state poi raccolte in un famoso e celebrato volume intitolato: Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio.

Calvino non ha fatto in tempo a vedere internet, i social network, la velocità con la quale si propagano le notizie, la voracità che caratterizza il nostro consumo di parole e di immagini, accompagnato dalla fretta e dalla progressiva erosione delle nostre capacità di attenzione che si traducono in una iper-semplificazione del linguaggio e delle idee.

Eppure aveva visto già ai suoi tempi la tendenza a un impoverimento e appiattimento del linguaggio.

La copertina del libro Lezioni americane di Italo Calvino

In una delle sue sei lezioni, in quella dedicata all'esattezza, scrive

Mi sembra che il linguaggio venga sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio intollerabile. Non si creda che questa mia reazione corrisponda a un'intolleranza per il prossimo: il fastidio peggiore lo provo sentendo parlare me stesso. Per questo cerco di parlare il meno possibile, e se preferisco scrivere è perché scrivendo posso correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare non dico a essere soddisfatto delle mie parole, ma almeno a eliminare le ragioni d'insoddisfazione di cui posso rendermi conto.

Con la scrittura quindi si può quanto meno tentare di sfuggire a questa epidemia che Calvino definisce come una peste del linguaggio, un

automatismo che tende a livellare l'espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.

Insomma viene fuori un linguaggio sempre più debole, annacquato, livellato su formule generiche e astratte. L'antidoto contro questa peste del linguaggio è, secondo Calvino, l'esattezza, che in un'opera scritta si manifesta su tre diversi livelli.

Esattezza vuol dire per me soprattutto tre cose:
1) un disegno dell'opera ben definito e ben calcolato
2) l'evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili
3) un linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell'immaginazione

Ovviamente, per quanto riguarda il linguaggio, il punto non è conoscere e utilizzare un numero ampio di parole per scrivere in modo ricercato o, peggio ancora, incomprensibile ai più, bensì usare le parole in modo tale da avvicinarci il più possibile all'idea che abbiamo nella mente, all'immagine che vogliamo comunicare.

Pensare a un esercizio specifico sull'esattezza come l'ha meravigliosamente intesa Calvino credo non abbia senso. Prendiamoci però un appunto mentale, da tirare fuori soprattutto quando siamo in fase di riscrittura. Tre domande da farci.

  • Com'è il disegno di questa cosa che ho scritto? Ha una struttura chiara? Posso dire di vederci dietro un progetto, una trama, uno scheletro o è solo una successione disordinata di pensieri ed eventi?
  • Come sono le immagini visuali? Le mie descrizioni sono chiare ed efficaci? Sono capaci di evocare immagini in chi legge o resta tutto sfocato e indistinto?
  • Il linguaggio che ho usato, la scelta delle parole e la costruzione di ogni frase, rendono bene quello che volevo comunicare? Ci sono frasi fatte, parole troppo generiche, ripetizioni? Come posso evitarle?
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