Davanti a risultati eccellenti in campo artistico, scientifico, sportivo, si ripropone la solita vecchia questione: è talento o esercizio? Geni si nasce o si diventa? Dobbiamo esserci portati o conta solo la perseveranza?
Un'idea che ha fatto breccia negli ultimi dieci anni è l'importanza della pratica deliberata. Il talento non esiste - dicono - chiunque può raggiungere risultati eccellenti con l'impegno e con la pratica.
Addirittura è stata stimata la quantità di ore necessaria a diventare dei veri esperti: 10 mila ore di pratica. Insomma calcolando di esercitarsi una media di 6 ore al giorno per 365 giorni l'anno dovrebbero bastare meno di 5 anni per diventare eccellenti in qualsiasi campo.
Queste idee esercitano senza dubbio un certo fascino. Se il talento non esiste allora siamo tutti uguali, abbiamo le stesse possibilità di diventare grandi nel nostro campo. Possiamo sognare medaglie olimpiche, premi nobel, teatri e stadi pieni di gente che aspetta solo noi...
Focalizzarsi sull'impegno, sulla pratica, sulla perseveranza non è sbagliato - dico io. Però mi viene la curiosità di capire. Da dove viene questa idea sull'inesistenza del talento? È davvero scientificamente dimostrato che con la pratica si può ottenere qualsiasi risultato?
Lei è Mao Asada, campionessa mondiale di pattinaggio. Bastano 10mila ore di pratica?
I violinisti di Ericsson
Anders Ericsson è uno psicologo svedese famoso per i suoi studi sulla pratica deliberata. Una parte consistente della sua attività di ricerca l'ha dedicata a cercare di rispondere a questa domanda: come riescono i grandi a essere così bravi in quello che fanno?
Nel 1993 Ericsson assieme a due colleghi ha pubblicato i risultati di una ricerca che è diventata il principale punto di riferimento scientifico sull'argomento.
Gli psicologi sono andati a cercare le cavie per i loro esperimenti tra i giovani violinisti del prestigioso Conservatorio di Berlino (che all'epoca era Berlino ovest).
Con l'aiuto degli insegnanti del conservatorio hanno suddiviso i musicisti in tre gruppi:
- il primo gruppo era formato dai migliori violinisti, quelli con le maggiori possibilità di avere una carriera nelle migliori orchestre internazionali
- il secondo gruppo era formato da buoni violinisti, non eccellenti come quelli del primo gruppo ma comunque di ottimo livello
- il terzo gruppo era formato dai violinisti con prestazioni inferiori, avviati alla carriera di insegnanti di violino (e non quindi di concertisti di alto livello).
L'obiettivo di Ericsson e dei suoi colleghi era cercare di capire cosa distingueva questi tre gruppi. Quanto tempo dedicavano alla musica? Come e quanto si esercitavano? Quanto avevano studiato in passato? Il gruppo dei migliori cosa aveva di diverso dagli altri?
Per scoprirlo studiarono le routine quotidiane presenti e passate dei giovani allievi del conservatorio.
Un primo risultato fu che tutti i violinisti trascorrevano la maggioranza del loro tempo facendo musica: si esercitavano - da soli o in compagnia - suonavano per divertimento, si esibivano in pubblico, prendevano e davano lezioni, studiavano o ascoltavano musica. Nel complesso tutte queste attività occupavano in media circa 50 ore a settimana. La musica era quindi la loro attività principale. Insomma nessuno di loro sognava di diventare un professionista del violino trascorrendo le giornate a caccia di farfalle.
La cosa interessante però è che non c'era alcuna differenza rilevante tra i gruppi: tutti dedicavano più o meno 50 ore alla settimana al violino, sia i più bravi che i meno bravi.
Dove stava allora la differenza?
Nel tipo di pratica.
Tra tutte le diverse attività di studio svolte dai giovani violinisti, una in particolare era considerata da loro stessi quella più importante per migliorare: esercitarsi da soli.
Suonare in compagnia, oppure esibirsi, o prendere lezioni, sono tutti modi per fare pratica. Ma nulla produceva miglioramenti come la pratica intenzionale, svolta in solitudine, con lo scopo preciso di lavorare sui propri limiti e di superarli.
Ed era proprio in questo tipo di pratica che i primi due gruppi - i violinisti eccellenti e quelli bravi - si distinguevano dal terzo gruppo. Infatti i giovani violinisti del primo e del secondo gruppo dedicavano allo studio del violino in solitudine circa 24 ore alla settimana; mentre i violinisti del terzo gruppo, quelli con prestazioni inferiori, solo 9 ore.
Una bella differenza quindi. Sufficiente a spiegare i differenti livelli di bravura raggiunti.
I più bravi erano quelli che occupavano più tempo nell'esercizio solitario.
Restava ancora da capire però cosa distingueva il primo dal secondo gruppo: entrambi dedicavano alla pratica deliberata in solitudine circa 24 ore alla settimana. Perché alcuni erano valutati come eccellenti e altri come molto bravi?
Ericsson e colleghi erano molto convinti che la pratica solitaria fosse la vera chiave per comprendere il tutto. Quindi fu sempre in quella direzione che andarono a cercare conferme. Chiesero infatti a tutti i violinisti di ricostruire il numero di ore di pratica solitaria che avevano accumulato a partire dal momento in cui avevano cominciato a suonare fino ai 18 anni di età (prima quindi di entrare al conservatorio).
I risultati di questa ricostruzione confermarono le ipotesi dei ricercatori: i violini eccellenti, a 18 anni avevano accumulato più di 7.400 ore di pratica in solitudine. I violisti molto bravi ne avevano messe assieme 5.300 e quelli del terzo gruppo, gli insegnati, solo 3.400.
Alla fine quindi, il numero di ore di pratica deliberata spiegava perfettamente le differenze tra i tre gruppi.
I violinisti più bravi di tutti erano quelli che nel corso degli anni avevano trascorso più tempo da soli, a tu per tu con il loro violino, con la precisa intenzione di esercitarsi per migliorare le loro capacità.
A ulteriore conferma, gli psicologi studiarono un quarto gruppo di violinisti: professionisti di mezza età che già suonavano nelle più importanti orchestre a livello internazionale. Anche a loro fu chiesto di stimare il numero di ore di pratica in solitudine che erano arrivati a mettere assieme all'età di 18 anni, e il risultato fu estremamente simile a quello dei giovani violinisti eccellenti: 7.300 ore circa.
In sintesi - conclusero Ericsson e colleghi - l'elemento che spiegava il successo nel suonare il violino era questo: l'esercizio in solitudine. Il talento, secondo loro, non aveva alcuna influenza, né prima né dopo. A riuscire erano solo quelli che studiavano di più e nel modo giusto.
Il talento non esiste?
Gli studi di Ericsson e dei suoi colleghi sono stati presi spesso come punto di partenza per fare affermazioni un po' tranchant.
Il talento non esiste, si è detto. Chiunque può raggiungere risultati eccellenti con la pratica e l'esercizio.
Insomma siamo tutti un po' Einstein dentro? E se il nostro genio non è ancora emerso è solo perché ancora non ci siamo applicati abbastanza?
Citando Thomas Edison, uno dei più prolifici inventori di sempre:
Il genio è 1% ispirazione e 99% sudore
D'accordo senza dubbio sul sudore: difficile pensare di raggiungere buoni risultati senza applicazione ed esercizio.
Ma come la mettiamo con quel restante 1% di ispirazione, talento, guizzo, predisposizione naturale (chiamatelo come vi pare)? Esiste o no? È necessario o no per raggiungere prestazioni eccellenti?
Qualche dubbio in merito c'è, e la questione è tutt'altro che risolta.
Per esempio al Dipartimento di genetica dell’Università di Helsinki, dopo avere condotto numerosi studi sul DNA di alcune famiglie finlandesi, sono convinti che esista una vera e propria predisposizione genetica al talento musicale.
In ambito sportivo, è noto che esistono alcune varianti genetiche che favoriscono le prestazioni atletiche di alto livello.
E anche l'intelligenza potrebbe avere una base ereditaria.
Mettiamoci il cuore in pace: affermare che il talento non esiste e che tutti possiamo raggiungere l'eccellenza in qualsiasi attività decidiamo di applicarci è una balla.
Ma sarebbe altrettanto sbagliato concludere che il destino sia già interamente scritto nei nostri geni e che quindi non possiamo fare niente per sviluppare le nostre capacità e raggiungere qualche successo.
La realtà è molto più complessa di come a volte la disegnano.
L'importanza della pratica deliberata
Ma torniamo da dove siamo partiti: la pratica deliberata.
Tutto quello che abbiamo detto fino qui dovrebbe farci concludere che serve a poco?
Tutt'altro.
Negli ultimi anni gli psicologi hanno fatto altre ricerche sull'argomento, e molte sembrano concludere che la pratica deliberata resta uno degli elementi chiave del successo, anche se non è sufficiente a spiegare tutto.
Infatti anche a parità di ore di pratica ci sono pianisti, scacchisti, e lottatori di wrestling (tanto per fare degli esempi) più bravi di altri.
È evidente che entrano in gioco altri fattori: per esempio l'età nella quale cominciamo a impegnarci in una certa attività, ma anche la memoria, l'intelligenza, il modo con cui elaboriamo le informazioni. E che c'è ancora bisogno di altra ricerca per capire meglio come funziona.
Insomma, la formula per il successo ancora non è stata scoperta, (e io sospetto che non esista). Certe semplificazioni, come la regola delle 10mila ore, hanno il loro fascino, ma non reggono alla prova dei fatti.
Le capacità di base contano eccome, e non è vero che possiamo arrivare ovunque vogliamo solo con la determinazione e l'esercizio.
Il talento quindi in qualche modo esiste, anche se ancora non ne sappiamo dare una definizione precisa. Ma di una cosa possiamo essere certi: senza la pratica, il talento comunque non può emergere.
Quindi l'esortazione a rimboccarsi le maniche e a lavorare duro mantiene intatta la sua validità. A patto che non ci mettiamo in testa di volere essere a tutti i costi il numero uno al mondo.
La pratica è essenziale per sviluppare in modo pieno il nostro potenziale, qualsiasi esso sia.
Forse dentro di te si nasconde un campione, un artista sopraffino, un premio nobel. O forse un buon artigiano, un bravo insegnante, un piccolo imprenditore.
Non importa quanto grande sia il tuo talento. Il punto è: ti interessa portarlo al suo massimo sviluppo? Se la risposta è si, allora non c'è che una strada: la pratica.
Attenzione però che la pratica deliberata - quella che ti porta veramente a migliorare - non è una pratica qualsiasi.
Ricordi i violinisti di Ericsson? Tutti studiavano musica per 50 ore a settimana, ma i più bravi erano quelli che dedicavano il maggior numero di ore a un certo tipo di studio. Quello che Ericsson ha definito pratica deliberata e che Anna Maria Testa, in un articolo uscito su Internazionale ha descritto in modo molto chiaro:
La pratica deliberata è qualcosa di profondamente diverso dal semplice allenamento: chiede una dose altissima di concentrazione e si focalizza non sul mantenere, ma sull’estendere costantemente le proprie capacità. Consiste nel continuare a forzare i propri limiti e nel lavorare in modo accanito sui punti deboli. Per riuscirci bisogna essere molto tenaci, molto esigenti e molto onesti con se stessi.
È una sfida. Io per esempio ci provo a ogni articolo che scrivo. Ci metto passione e allo stesso tempo fatica. Cerco di non adagiarmi su quello che già so, di sperimentare, di cercare continuamente la mia vera voce, di migliorare lo stile. Di essere leggibile, coinvolgente, chiara, semplice, utile.
Ci riuscirò?
Ne parliamo tra 10mila ore ;)
L'immagine è di David W. Carmichael [CC BY-SA 3.0], via Wikimedia Commons
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