Immagina come poteva essere la vita di un contadino anche solo cento anni fa.
Tutti i giorni si alza presto e si mette al lavoro. A seconda della stagione zappa, semina, raccoglie. Tiene il campo pulito dalle erbacce e prega che il maltempo non rovini il raccolto.
In paese si conoscono tutti. Ci sono pochi divertimenti, qualche festa ogni tanto, una taverna dove andare a bere. I rapporti con l'esterno sono rari. Non ha la radio, non ha la televisione, non legge i giornali.
Anno dopo anno, stagione dopo stagione, fa sempre le stesse cose. D'altra parte non c'è altro nel suo orizzonte di vita. Arriverà davanti all'ultimo tramonto, appoggerà la zappa al tronco di un albero, si metterà seduto a guardare il suo campo, e forse potrà dire di avere sfruttato al massimo tutto quello che la vita aveva da offrirgli.
La vita degli esseri umani è stata più o meno così fin dalla notte dei tempi. Certe domande come: cosa farò da grande? qual è lo scopo della mia vita? abbiamo cominciato a farcele solo di recente.
La paura dei rimpianti, l'ansia del prendere la strada giusta, la necessità continua di fare delle scelte, sono caratteristiche dell'esistenza nella società di oggi.
La vita oggi ci offre tanto. Ma la quantità di esperienze che potenzialmente possiamo fare eccede di molto il tempo e le risorse a nostra disposizione.
La nostra - dicono i sociologi - è una società complessa. Mai prima d'ora c'è stata tanta libertà, tanto pluralismo, tante possibilità. Il figlio del contadino oggi non farà per forza il contadino a sua volta. Nulla gli impedisce di provare a diventare quello che vuole: un cuoco, un maestro, un giocoliere, un pilota, un astronauta e perfino il presidente della repubblica.
Ma di sicuro non potrà essere tutte queste cose assieme.
Potenzialmente possiamo essere, fare e diventare qualsiasi cosa vogliamo. Ma di vita ne abbiamo una sola: il tempo che abbiamo a disposizione è limitato. Così come sono limitate tutte le nostre altre risorse: i soldi, la salute, l'attenzione, la forza di volontà. Ogni volta che scegliamo una cosa, ce ne stiamo lasciando alle spalle molte altre. Paghiamo sempre un costo.
Ma spesso, in questa nostra sfavillante cultura del consumo, della crescita, delle infinite possibilità, questa verità resta in ombra.
A lezione di economia
Il concetto di costo opportunità, che si utilizza in economia, illustra molto bene la questione.
Il costo opportunità è ciò a cui si rinuncia ogni volta che si fa una scelta.
Se adesso vado fuori a correre probabilmente stasera sarò troppo stanca per andare a ballare.
Se mi compro un bel vestito con cento euro, con quegli stessi cento euro non potrò passare un fine settimana al mare.
Se accetto un invito a pranzo fuori, e qualcuno paga per me, cosa mi costa? Niente in termini monetari, ma, in termini di tempo, accettare quell'invito mi costa le attività che non farò mentre sono fuori a pranzo: per esempio lavorare, o pulire la casa o leggere un libro.
Il costo opportunità esiste perché le risorse sono scarse: se le mie energie, i miei soldi, il mio tempo fossero infiniti, scegliere non avrebbe un costo, potrei avere questo e quello.
La nostra è una società che moltiplica le opportunità. Le nostre possibilità di scelta sono ampie, sicuramente molto più ampie di quelle del nostro contadino di prima. Ma più possibilità ci sono più aumenta il costo che paghiamo ogni volta che facciamo una scelta.
Certe volte siamo vagamente consapevoli di questo, e ci sentiamo a disagio, in ansia, insicuri. Sarà la scelta giusta? Non farei meglio a sfruttare questo tempo, o questi soldi, o queste energie, in un altro modo?
A me per esempio succede con i libri. Spesso faccio fatica a concentrarmi nella lettura perché penso agli altri libri che vorrei leggere e mi domando se non sarebbero più interessanti, avvincenti, o utili di quello che ho scelto. E questo pensiero mi fa innervosire.
La paura di essere tagliati fuori
Gli americani utilizzano l'acronimo FOMO: Fear of Missing Out. La paura di perdersi qualche cosa.
È l'ansia di essere tagliati fuori, di non esserci mentre accadono cose importanti.
Hai deciso di passare una domenica pomeriggio tranquilla, però pensi che in quel momento altre persone stanno facendo cose sicuramente più fighe, interessanti e piacevoli... e tu te le stai perdendo.
Forse è qualcosa che da giovani abbiamo provato tutti, magari quella volta in cui mezzo liceo andava a una festa e noi per qualche motivo non potevamo esserci.
Con l'avvento dei social network questo tipo di disagio è diventato sempre più diffuso. Alcune persone sentono il bisogno di stare continuamente connesse con quello che fanno gli altri. Provano invidia e si sentono inadeguate perché hanno la sensazione che gli altri siano sempre coinvolti in esperienze più interessanti di quelle che stanno vivendo loro.
Nel 2011 una giornalista del New York Times ha raccontato di questo suo disagio: non riusciva a godersi una serata a casa tranquilla perché stava sempre a controllare sui social cosa stavano facendo i suoi amici.
Andrew Przybylski, uno psicologo che lavora a Oxford, nel leggere quell'articolo si è domandato come mai nessuno avesse ancora preso in considerazione il fenomeno FOMO dal punto di vista scientifico.
Przybylski lavorava (e lavora tutt'ora) all'Oxford Internet Institute, un istituto universitario la cui mission è: capire la vita online. Era nel posto giusto per cominciare a fare ricerche sulla Fomo.
Prima ha costruito un questionario capace di misurare il livello individuale di Fomo, e poi lo ha sottoposto a più di 2000 persone in età compresa tra i 22 e i 65 anni. Da questi primi studi si è accorto che sono soprattutto i giovani soffrire di questo problema, e quindi ha approfondito l'argomento studiando un gruppo di studenti al primo anno di università.
Secondo Andrew Przybylski la possibilità che i social media ci danno di essere sempre connessi al resto del mondo ha delle conseguenze ambivalenti: positive e negative.
Da molti punti di vista questo invito alla socialità è positivo, perché mette in evidenza le possibilità e connette tra loro le persone. Tuttavia, poiché il tempo è limitato, questo significa anche che le persone devono per forza restare tagliate fuori da un insieme di esperienze potenzialmente soddisfacenti che diventano evidenti grazie all'uso del social media.
Come a dire: è sempre vero che ogni volta che facciamo una scelta stiamo rinunciando a qualcosa d'altro. Ma prima di Facebook nessuno ce lo sbatteva in faccia. Potevamo passare una serata a guardare qualche vecchio film in tv senza che ci fosse un social a ricordarci che in quel momento il resto del mondo stava vivendo chissà quali eccitanti esperienze.
Gli studi di Andrew Przybylski hanno messo in evidenza che alcune persone sono particolarmente sensibili a questo tipo di ansia: quelle più insicure, che tendono a sentirsi poco accettate dagli altri e che sono meno soddisfatte della loro vita.
La paura di perdersi qualcosa è anche correlata alla difficoltà a stare focalizzati sul presente.
Qualche volta - dice Andrew Przybylski - è una buona cosa imparare a isolarci dalle infinite possibilità che il mondo ci offre.
L'aumento delle possibilità di scelta in genere è considerato come una cosa positiva.
E sì: è meraviglioso pensare che in ogni momento ci sono un sacco di possibilità diverse. Che posso scegliere come passare il mio tempo libero, quale università frequentare, quali libri leggere, quali abiti indossare, quali quadri appendere alle pareti.
Non sempre però ci viene insegnato a essere consapevoli del rovescio della medaglia. Il nostro tempo è limitato. Non abbiamo abbastanza vita per percorrere tutte le strade che si aprono davanti a noi. Ogni scelta comporta una rinuncia.
Questa è la parte in ombra, quella su cui la nostra cultura tende un po' a glissare. Sotto sotto passa il messaggio: puoi avere tutto e va a finire che quando ci rendiamo conto che così non è, ci sentiamo un po' spiazzati.
Storie di donne e di uomini
Qualche anno fa ha fatto un certo scalpore negli Stati Uniti un articolo uscito su The Atlantic dal titolo Perché le donne non possono ancora avere tutto.
L'articolo è firmato da Anne-Marie Slaughter, una donna di potere che a un certo punto della sua carriera ha deciso di fare un passo indietro per seguire meglio la famiglia. La Slaughter aveva appena ottenuto un incarico ai vertici della politica estera americana, alle dirette dipendenze di Hillary Clinton. Un incarico al quale ha rinunciato per tornare a Princeton dove vivevano il marito e i due figli adolescenti.
Non potevo continuare a guardare mio figlio maggiore prendere le decisioni sbagliate senza essere in grado di essere lì per lui, se e quando avesse avuto bisogno di me.
L'ha messa giù molto semplice e diretta. Mi colpisce perché penso che per una persona in quella posizione non deve essere facile dire pubblicamente: ok, la mia famiglia sta andando a rotoli, scusate ma devo correre ai ripari.
Anne-Marie Slaughter nel suo articolo sottolinea quanto aveva pesato su di lei lo stereotipo della donna che può (e forse deve) avere tutto: una famiglia perfetta e una carriera importante. E se per caso non ce la fai - se per esempio i tuoi figli risentono della tua assenza, o se al contrario per stare più vicina ai figli non riesci a essere competitiva sul lavoro - allora è perché non ti sei impegnata abbastanza.
Non c'è bisogno di avere una carriera ai vertici della politica americana per rendersi conto di quanto questo modello sia presente e pressante. Basta guardare le pubblicità: quante fanno leva su questa superdonna, madre, lavoratrice e moglie perfetta? E quanti articoli sono stati scritti per esaltare questa donna multitasking che con una mano stira, con l'altra parla al telefono con l'amministratore delegato della sua azienda, mentre con un piede culla il bambino nel lettino? L'immagine di una persona stressata, sempre di corsa, sempre in ansia, eletta a modello della donna moderna ed emancipata. Che può avere tutto... se solo si impegna abbastanza.
Questa faccenda dell'incompatibilità tra un certo tipo di successo lavorativo e la cura della famiglia, è una questione in larga prevalenza femminile. Ma di tanto in tanto (e per fortuna) il problema viene sollevato anche dai signori uomini.
Nel 2015 a fare notizia è stato Mohamed El-Erian, CEO della PIMCO, una grossa società multinazionale che si occupa di investimenti. Per capirci stiamo parlando di un tizio con uno stipendio che si aggirava sui 100 milioni di dollari all'anno.
Questo signore una sera ha bisticciato con la figlia di dieci anni che si rifiutava di lavarsi i denti. La bambina ha motivato la sua disobbedienza con una bella lista di eventi importanti nei quali il padre aveva brillato per assenza, dal primo giorno di scuola alla prima partita di calcio della stagione.
Lui è rimasto spiazzato, ci ha pensato e ha detto: ok, ha ragione mia figlia. Ha lasciato il suo incarico e si è messo a fare il papà a tempo pieno.
Storie come quella di Anne-Marie Slaughter e di Mohamed El-Erian sono piuttosto lontane dall'esperienza di noi persone comuni che solo a sentire 100 milioni di dollari ci gira la testa. Nella nostra realtà ci sono un sacco di genitori, madri e padri, che fanno i salti mortali per barcamenarsi tra lavoro e famiglia e spesso non hanno la possibilità di scegliere. Però sono comunque storie con una importanza simbolica, proprio perché vengono da quel tipo di persona della quale è facile pensare che possa avere tutto dalla vita. E invece anche loro si sono trovati nella posizione di scegliere e rinunciare a qualcosa per qualcos'altro.
A cosa sei disposto a rinunciare?
Molte persone si dichiarano insoddisfatte della loro vita. Forse sono bloccate in un lavoro che non amano, o non riescono ad avere una vita affettiva soddisfacente, o sentono che il tempo passa e non hanno realizzato i loro desideri.
È difficile tirarsi fuori da lì, perché magari sei dentro quella routine da tempo, ti sei abituato, non sai da che parte cominciare per muoverti.
In questi casi le domande che ci facciamo sono queste: cosa voglio davvero dalla vita? e cosa posso fare per ottenerlo?
Domande importanti, che io stessa mi sono fatta e in parte mi faccio tutt'ora.
Ma occhio che qualche volta il punto è un altro. Un'idea di dove vogliamo andare ce l'abbiamo, ma quello che non abbiamo messo bene a fuoco è il rovescio della medaglia: a cosa sono disposto a rinunciare? quando mi costa scegliere una strada diversa? qual è il costo opportunità di questo cambiamento?
Chiudo qui, con queste domande scomode ;)
A presto!