La vita emotiva del cervello Davidson

È il 13 settembre 1848. Siamo nel Vermont, vicino alla cittadina di Cavendish.

Alcuni operai stanno lavorando per costruire la nuova linea ferroviaria. Il capo della squadra si chiama Phineas Gage, ha 25 anni.

Gli operai usano la dinamite per liberare la massicciata e posare i binari. Bucano i sassi e ci infilano sabbia e dinamite. Maneggiano delle aste di ferro appuntite con le quali pressano la sabbia prima di innescare l’esplosione.

Per Gage è un giorno sfortunato. Mentre sta pressando la sabbia una scintilla fa esplodere la dinamite. L'asta di ferro viene sbalzata via penetra sotto la sua guancia sinistra, gli attraversa il cervello e poi esce dalla sommità della testa per atterrare qualche metro più in là.

Incredibilmente Gage non muore. Viene soccorso e portato alla locanda dove alloggiava. Il medico del posto sistema la ferita come può e dopo pochi giorni Gage si riprende.

Però succede qualcosa di strano - come se non fosse già abbastanza strana la storia fino qui.

Phineas cambia completamente carattere. Diventa scostante, irascibile, capriccioso. Comincia a dire oscenità e bestemmie. Diventa intollerante alle restrizioni e alle convenzioni sociali. A detta della moglie e degli amici più stretti è un'altra persona.

Tutto ha origine nel cervello

Phineas Gage è uno dei casi di studio più famosi nella storia delle neuroscienze e non è un caso se Richard Davidson ne parli proprio nelle prime pagine del libro La vita emotiva del cervello.

È stata infatti una delle prime dimostrazioni del fatto che strutture cerebrali specifiche controllano funzioni mentali specifiche.

L'incidente aveva distrutto una parte dell'area prefrontale del cervello, che tra le altre cose ha un ruolo fondamentale nella regolazione delle emozioni. Phineas Gage aveva perso i freni inibitori ed era diventato incapace di controllare le emozioni.

Neuroscienze Phineas Gage

Phineas Gage - dalla collezione di Jack e Beverly Wilgus

Le emozioni sono proprio il campo di indagine di Richard Davidson, che è psicologo e neuroscienziato e ha dedicato la sua attività di ricerca a cercare di capire come e dove si creano le emozioni all'interno del nostro cervello.

Cosa succede dentro la nostra scatola cranica quando siamo felici? E quando siamo in ansia o preoccupati? E perché alcune persone reagiscono bene allo stress mentre altre tendono a crollare? Cosa c'è nel cervello delle persone depresse che impedisce loro di vivere serenamente?

Davidson si è fatto queste e molte altre domande e ha così inaugurato un nuovo settore di studi che è stato chiamato neuroscienze affettive.

Questo libro - scritto assieme alla giornalista Begley Sharon - è un resoconto appassionato e appassionante di 35 anni di ricerca scientifica.

In certi momenti sembra di leggere un romanzo.

Compaiono personaggi come Daniel Goleman, famoso per il best-seller L'intelligenza emotiva, Paul Ekman, lo studioso delle espressioni facciali, che ha ispirato la serie tv Lie to me (quello che se ti guarda in faccia capisce se stai mentendo o cosa) e Jon Kabat-Zinn, il padre della mindfulness occidentale.

Insomma una bella combriccola di menti geniali nel loro settore.

E tanto per non farci mancare niente, c’è di mezzo anche sua santità il Dalai Lama e un certo monaco buddhista di nome Matthieu Ricard conosciuto anche come l'uomo più felice del mondo.

In questo libro c'è davvero tanta roba, e raccontarla non è facile.

E infatti sto meditando di piantarla con questo articolo e scriverne uno sui 15 modi diversi per portare una sciarpa e convertirmi per sempre al fashion blogging.

Ma purtroppo non posso farlo, perché di moda non ne capisco niente.

Neppure di neuroscienze a dire il vero, ma almeno posso leggere dei libri interessanti e raccontarli qui sul blog ;)

Ok, chiusa la parentesi scema torniamo al libro.

Lo stile emozionale

Dopo avere condotto esperimenti di ogni genere, osservato il cervello di centinaia di persone e ficcato un sacco di gente dentro i tubi della risonanza magnetica, Richard Davidson ha formulato la teoria degli stili emozionali.

Lui dice che ogni persona ha un suo particolare stile emozionale, che sarebbe il modo che ognuno di noi ha di rispondere alle esperienze della vita.

Ogni stile emozionale è governato da circuiti cerebrali specifici e identificabili, e si può osservare utilizzando metodi di laboratorio oggettivi.

Insomma sì, le emozioni - come ben sappiamo tutti - sono anche nel cuore che batte forte, nello stomaco che sfarfalla, nelle gambe che tremano. Ma - anche se non siamo in grado di sentirlo - tutto questo ha origine nel cervello.

Lo stile emozionale è composto da queste sei dimensioni.

  1. Resilienza - misura la velocità con la quale ci riprendiamo dagli stress emotivi. Rappresenta la capacità di reagire davanti alle avversità.

  2. Prospettiva - misura la capacità di mantenere nel tempo le emozioni positive.

  3. Intuito sociale - misura la capacità di cogliere i segnali sociali inviati dalle persone attorno a noi. Quanto capiamo degli altri al di là delle parole esplicite?

  4. Autoconsapevolezza - misura la capacità di percepire con chiarezza le sensazioni fisiche che riflettono le nostre emozioni.

  5. Sensibilità al contesto - misura la capacità di modulare le reazioni emotive in base al contesto in cui ci troviamo.

  6. Attenzione - misura l'intensità e la chiarezza con cui siamo capaci di restare concentrati.

Davidson sostiene che lo stile emozionale di ogni persona dipende da come sono combinate tra loro queste diverse dimensioni.

Nel libro ci sono anche alcuni test per misurare in che posizione ti trovi per ogni dimensione, in modo da capire qual è il tuo stile emozionale.

Certo non sono test sofisticati e precisi, ma io ho provato a farli e mi sono abbastanza ritrovata. Per esempio risulta che io ho poca resilienza e qualche difficoltà a tenere l'attenzione focalizzata. Bassa resilienza e scarsa attenzione sono tipiche, dice Davidson, delle persone ansiose. E questo in effetti corrisponde al vero.

La vita emozionale del cervello

La copertina del libro in lingua originale

Lo stile emozionale di ciascuno di noi è diverso e quindi è diverso il modo che abbiamo di reagire alle cose che ci capitano nella vita.

Un grosso limite del self-help, delle strategie di crescita personale e di tutta la psicologia spicciola che circola su giornali e sul web è proprio questo: non siamo tutti uguali. Non esiste una modalità standard di reagire agli eventi della vita.

Soprattutto quando stiamo parlando di emozioni non esistono soluzioni adatte a tutti. Perché ogni individuo ha il suo patrimonio genetico - sì, anche il DNA influisce sulle emozioni - e i suoi pattern cerebrali.

Il cervello resiliente

La resilienza è una delle caratteristiche più importanti dello stile emozionale.

Se siamo poco resilienti - ovvero lenti a riprenderci come dice Davidson - quando ci scontriamo con le inevitabili difficoltà della vita finisce che paghiamo un prezzo troppo salato.

Richard Davidson ha scoperto che la velocità con la quale il cervello si riprende da una esperienza negativa dipende dal livello delle connessioni tra la corteccia prefrontale e l'amigdala.

Cervello amigdala resilienza

L'amigdala è una piccola porzione del nostro cervello a forma di mandorla ed è in buona parte responsabile delle paura e di tutte le emozioni correlate. L'amigdala è collegata ad altre parti del cervello, tra cui la corteccia prefrontale che è coinvolta in un sacco di processi importanti tra cui pianificare compiti cognitivi complessi, prendere decisioni, regolare il comportamento sociale e le emozioni.

Le ricerche hanno mostrato che nel cervello di una persona resiliente le connessioni tra corteccia e amigdala sono particolarmente forti; mentre al contrario sono deboli nelle persone che sono lente a riprendersi dagli stress emotivi.

Più precisamente in una persona resiliente, quando si verifica un evento stressante, la parte sinistra della corteccia prefrontale si attiva e manda velocemente segnali all'amigdala riducendone l'attività. In questo modo i segnali associati alla paura diventano meno intensi e il cervello riesce a elaborare piani e strategie senza essere troppo distratto dalle emozioni negative.

Ma se le cose stanno davvero così, se la resilienza - e gli altri aspetti dello stile emozionale - dipendono da quello che fa il nostro cervello, allora le persone non hanno possibilità di cambiare?

Se io sono una persona lenta a riprendersi vuol dire che sono nata così? E soprattutto vuol dire che sono destinata a restare così per tutta la vita? Sono condannata a farmi sopraffare dallo stress e dall'ansia per ogni contrattempo?

Non è proprio così, per fortuna.

Tassisti londinesi e pianisti virtuali

Il nostro cervello possiede una proprietà fantastica chiamata neuroplasticità: la capacità cioè di cambiare forma e funzionamento.

Una volta si pensava che solo il cervello dei bambini potesse cambiare in modo radicale e che questo cambiamento si fermasse in età adulta.

Gli studi più recenti invece hanno dimostrato che non è affatto così.

Una ricerca di qualche anno fa ha scoperto che i tassisti londinesi - che devono imparare a orientarsi in una metropoli estesa e complicata come Londra - hanno un ippocampo particolarmente sviluppato. L'ippocampo è l'area del nostro cervello responsabile della memoria spaziale.

Il cervello dei violinisti è più sviluppato e più attivo nelle aree che controllano i movimenti delle mani.

Nelle persone non vedenti che imparano a leggere il braille succede qualcosa di incredibile. L'area del cervello che normalmente viene utilizzata per elaborare i segnali visivi - e che in una persona cieca non riceve alcun segnale - cambia la sua funzione e si mette a elaborare gli stimoli che riceve dal tatto.

Ma la cosa ancora più interessante è che il cervello può modificarsi anche in seguito di stimoli generati all'interno: cioè pensieri, o intenzioni.

C'è una famosa ricerca, condotta ad Harvard che ha mostrato un fenomeno curioso: immaginare ripetutamente di suonare un brano al pianoforte con la mano destra produce nella corteccia motoria cambiamenti che sono simili - ma di minore intensità - a quelli che vengono prodotti se il brano viene suonato davvero.

Una pura attività mentale può produrre effetti fisici osservabili nel nostro cervello.

Ed è esattamente quello che succede con la meditazione.

Le ricerche sulla meditazione

All'inizio degli anni '70, mentre faceva la scuola di specializzazione ad Harvard, Richard Davidson aveva incontrato la meditazione.

Dopo un lungo periodo di pratica e un viaggio in India, avrebbe voluto dedicare la sua attività scientifica a capire gli effetti della meditazione sul cervello.

Ma i tempi non erano maturi.

Così continuò per anni e anni a meditare, evitando di parlarne con i colleghi che l'avrebbero probabilmente considerata un'abitudine new age poco adatta agli ambienti scientifici.

Questo fino al 1992 quando prese carta e penna e scrisse direttamente al Dalai Lama per chiedergli il permesso di studiare il cervello di alcuni monaci buddhisti.

Mesi dopo Davidson e la sua equipe andarono in India, a Dharamsala, dove furono ricevuti dal Dalai Lama - che era molto interessato alla faccenda.

Poi affrontarono chilometri a piedi lungo sentieri impraticabili, trascinandosi dietro la loro ingombrante attrezzatura, per andare a trovare i monaci eremiti che vivevano in capanne di pietra alle pendici dell'Himalaya.
Nessuno di loro però accettò di sottoporsi agli esperimenti: non capivano cosa volessero questi scienziati occidentali, e non avevano nessuna intenzione di farsi mettere strani aggeggi in testa.

Solo anni dopo la situazione si sbloccò, grazie a Matthieu Ricard, che era sì un monaco esperto di meditazione, ma era nato in Francia e prima di diventare buddhista e di ritirarsi in un monastero sull'Himalaya aveva preso un dottorato in biologia molecolare a Parigi.

Ricard era la persona giusta per fare da ponte tra la millenaria pratica di meditazione buddhista e le esigenze del metodo scientifico.

Da quel momento in poi Richard Davidson ha fatto decine di studi diversi sulla meditazione.
Alcuni sul cervello dei monaci con molti anni di intensa pratica meditativa. Altri su persone comuni che seguivano il corso di otto settimane di mindfulness secondo il protocollo ideato da Jon Kabat-Zinn. Altri ancora su partecipanti a ritiri intensivi di meditazione.

E ha scoperto diverse cose interessanti.

Meditare produce una maggiore attivazione della corteccia prefrontale sinistra, quella associata alle emozioni positive.

Rafforza le risposte del sistema immunitario - questo non c'entra direttamente con la fisiologia del cervello, ma dà qualche indicazione sulle relazioni tra cervello e sistema immunitario.

Praticare la meditazione di consapevolezza (mindfulness) allena il cervello a nuove forme di risposta alle esperienze e ai pensieri. Riduce l'attività della corteccia prefrontale destra, collegata alle emozioni negative, e incrementa l'attività di quella sinistra, associata alla resilienza e al benessere. Questo nuovo percorso trasporta una quantità sempre maggiore di pensieri e sensazioni innescando un circolo virtuoso.

Meditare affina la capacità di attenzione, aiutando il cervello a ridurre il chiacchiericcio di sottofondo e a concentrarsi su informazioni specifiche.

Altre ricerche ancora hanno coinvolto qualità come l'empatia e la compassione.

L'idea di Davidson è che con la meditazione possiamo allenare il nostro cervello al punto da cambiare alcune caratteristiche del nostro stile emozionale verso una maggiore resilienza, prospettiva positiva, attenzione focalizzata.

E infatti il libro si conclude con un capitolo dedicato a un po' di esercizi per cambiare il proprio stile emozionale.

Ma in fondo non c'era tutto bisogno di aggiungere quest'ultimo capitolo visto che alla fine l'esercizio più efficace sembra essere sempre quello: la meditazione.

Per concludere

La vita emotiva del cervello è un racconto sulle possibilità della ricerca scientifica in un campo in cui c'è ancora molto da scoprire, come lo studio del cervello.

È anche un libro sull'incontro tra due culture molto distanti tra loro: la scienza occidentale e le discipline contemplative dell'oriente. Una strana coppia molto promettente.

Un libro come questo non è fatto per dare indicazioni pratiche. Anzi la parte in cui propone un po' di esercizi per il cervello è quella meno interessante.

Nonostante questo io due piccole indicazioni pratiche me le porto a casa.

  1. La prossima volta che mi sentirò troppo in ansia per qualcosa dirò a me stessa che si tratta della mia amigdala che si sta agitando per nulla e pregherò gentilmente la mia corteccia prefrontale sinistra di dirle di calmarsi. Chissà che non funzioni ;)

  2. Ho qualche motivo in più per perseverare con la mia pratica di meditazione quotidiana. È passato più di un anno da quando ho cominciato. Lo faccio tutti i giorni? Confesso di no. Mi fa stare bene? Non sempre. Ma dopo avere letto questo libro sono ancora più motivata di prima a perseverare.

Se sei arrivato a leggere fino qui davvero ti ringrazio perché questo articolo è molto lungo e impegnativo… devo ripensare a quella faccenda delle sciarpe ;)


La vita emotiva del cervello. Come imparare a conoscerla e a cambiarla attraverso la consapevolezza di Richard Davidson e Sharon Begley, Ponte alle Grazie (Salani Editore), Milano, 2013.