Newsletter - Ottobre
Esiste una relazione tra il comportamento evitante e l’ansia. Non so se davvero tutte le persone ansiose abbiano questa caratteristica, ma molte sì.
Funziona così: devi fare qualcosa che ti crea un pochino di ansia. Non necessariamente una incombenza spiacevole, semplicemente qualcosa che fa scattare quella sensazione di fastidio, disagio, vaga ansietta.
La prima cosa che fa la tua mente è cercare una via breve per eliminare il disagio, ed ecco che ti dici: non lo faccio, non ora, rimando. La procrastinazione è lo strumento perfetto dell’evitamento. Releghi la questione a un angolo della tua mente e per un po’ non ci pensi. In cambio ottieni un sollievo immediato dall’ansia.
Quindi funziona: almeno nel breve periodo, procrastinare sembra una buona idea.
Però non lo è, perché facendo così accadono due cose.
La prima è che le incombenze si accumulano. Certo se si tratta di un impegno evitabile il problema l'hai risolto (almeno in apparenza, ne parliamo dopo). Se invece si tratta di questioni che riguardano aspetti importanti della vita - per esempio la salute, il denaro, la famiglia - a forza di rimandare si crea un collo di bottiglia e ti trovi con un sacco di seccature da affrontare tutte assieme. Se poi le cose che eviti sono di natura relazionale - per esempio eviti i conflitti, eviti di fare valere i tuoi diritti, o di chiedere quello che desideri veramente - finisci con il ritrovarti con una quantità davvero eccessiva di frustrazione da gestire. E chissà dove se ne va la tua vita...
La seconda cosa che accade è che l’evitamento rafforza l’ansia. Quando domani ti troverai ad affrontare quello che oggi hai evitato l'ansia sarà maggiore. Se sei in un periodo veramente molto negativo può essere che rimandare in attesa che arrivi una giornata migliore possa funzionare. Ma tendenzialmente più si rimanda più il timore cresce, perché il messaggio che ci stiamo inviando è: non sei in grado di affrontare questa cosa.
Lo scorso mese ho sperimentato tutto questo in modo particolarmente intenso. Mi sono ritrovata a prenotare cinque accertamenti medici tutti assieme. Sono controlli di routine che avrei potuto tranquillamente distribuire nell’ultimo anno, ma ho rimandato, e rimandato, e poi rimandato ancora...
Nello stesso periodo, come in una sorta di congiuntura astrale negativa, si sono accumulati altri problemini. Aspettavo dei pagamenti che non arrivavano (e se c’è una cosa che odio è proprio dovere sollecitare), la commercialista ha fatto un errore nella mia dichiarazione, mi è calata di botto la vista in un occhio (un’altra visita da prenotare!).
Il mio punto debole sono le telefonate. Finché posso risolvere le questioni per e-mail me la cavo, ma se devo alzare il telefono è una tragedia. Mi mette fortissimo a disagio l’idea di risultare inopportuna, o di fare una figuraccia, o di trovare persone scortesi dall’altra parte.
Un trucco che cerco di usare in questi casi è questo: se mi ritrovo a pensare questa telefonata la faccio domani, me lo segno in agenda, ci penso più tardi... allora mi fermo, faccio un bel respiro e mi faccio una domanda. C’è davvero un motivo per non farlo adesso?
Nella maggior parte dei casi no, non c’è un vero motivo. Quindi metto da parte tutto e prendo il telefono.
Quando smettiamo di procrastinare gli impegni che ci mettono ansia e affrontiamo i problemi di solito ci accorgiamo che siamo in grado di risolverli. Questo ci fa sentire persone più sicure, competenti, capaci di prenderci cura delle nostre vite. Ci aiuta a spezzare quel circolo vizioso di evitamento-procrastinazione-ansia del quale il più delle volte non siamo nemmeno consapevoli perché la fatidica decisione lo faccio dopo la prendiamo velocemente, tra il brusio di molti altri pensieri e subito accantoniamo la questione.
Il meccanismo è lo stesso quando quello che stiamo evitando è qualcosa che ci fa molta paura, o qualcosa che temiamo possa scatenare dei forti sintomi ansiosi. Qui, è ovvio, bisogna andarci con maggiore cautela. Non sono mai stata favorevole alla strategia: buttati in acqua che impari a nuotare. Ma alla fine la strada è la stessa: esporsi a quello che ci spaventa. Perché continuare a evitare non fa altro che peggiorare la situazione.
Io per esempio ho paura dei viaggi in macchina. Negli ultimi anni ho assecondato un po' troppo questo timore. Ho rinunciato a fare delle cose pur di evitare spostamenti in auto e ho pure chiesto agli amici di adattare i loro programmi alle mie esigenze. Adesso mi rendo conto però di avere esagerato. Fino a qualche anno fa questo problema non era così limitante. Ora sto cercando di superarlo, ma è più difficile perché senza rendermene conto mi ci sono un po' adagiata.
L'angolo dei libri
Il mese scorso ho fatto un sondaggio per capire come orientare questa rubrica sui libri: se parlare solo di narrativa o se inserire anche testi e manuali di psicologia, self help e dintorni. È passata l’opzione di fare entrambe le cose a mesi alterni, con l'avviso che parlerò di libri di cui ho già parlato in passato sul blog.
Grazie a chi ha risposto al sondaggio :)
Oggi parto con questo libro di Oliver Burkeman, il cui titolo nell’edizione originale era: The Antidote. Happiness for People Who Can't Stand Positive Thinking, ovvero - L’antidoto: felicità per persone che non sopportano il pensiero positivo.
Per me già il titolo vale la lettura perché non sono mai riuscita a sopportare le persone che mi dicono di pensare positivo. Mi rendo conto che tutto sommato non è un cattivo consiglio, che si vive meglio con un sistema di pensiero improntato all’ottimismo, però sono diffidente verso la positività a ogni costo perché nasconde cose che non mi piacciono: la volontà di negare l’esistenza di certi rischi, la rimozione delle emozioni negative e del dolore.
Oliver Burkeman è un giornalista britannico, ha tenuto per moti anni una rubrica sul Guardian, tradotta in italiano dalla rivista Internazionale.
In questo libro ha messo assieme idee e riflessioni provenienti da diverse discipline e scuole di pensiero seguendo questo filo rosso: considerare la felicità come assenza di disagio ci condanna a una infelicità perenne.
A ben vedere – e me ne sto rendendo conto solo adesso mentre scrivo, non l’avevo premeditato – è un libro che si sposa benissimo con la prima parte di questa newsletter. I suoi consigli vanno molto bene proprio per chi cerca con ostinazione di stare bene riducendo i margini di incertezza con la pretesa di controllare tutto.
Chiaramente a nessuno piace soffrire, ma intestardirsi a inseguire una vita priva di dolore non serve a molto. Al contrario serve molto di più aprirsi alla vulnerabilità e accettare l'imprevedibilità delle nostre vite.
Sentirsi sicuri e vivere davvero la vita, in un certo senso, sono due condizioni incompatibili. Non puoi ottenere la sicurezza assoluta più di quanto un'onda possa uscire dall'oceano.
Poesia e saluti
Manteniamo la tradizione della poesia a fine newsletter.
Questa è di Mary Oliver, poetessa americana molto amata nel suo paese ma poco tradotta qui in Italia.
Scendo in riva al mare la mattina
e a seconda dell’ora le onde
entrano ed escono
e io dico, o misera me
che cosa farò
che cosa dovrei fare? E il mare dice
con la sua amorevole voce:
Scusami, ho da fare.
Ti sembra crudele? Io trovo che non lo sia, non a caso la risposta arriva con voce amorevole.
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