Sono le 15.15 di giovedì 16 giugno e mi sono appena seduta alla scrivania per scrivere questo articolo. Un attimo fa sono andata a prendere un bicchiere d'acqua fresca: fa caldo, e mi sto impegnando a fare attenzione a bere a sufficienza. Quando sono passata in cucina ho provato un moto di fastidio: c'è troppo disordine, non ho ancora messo nella lavastoviglie i piatti del pranzo, ci sono bottiglie di plastica vuote e contenitori vari sparsi in giro e il piano cottura ha decisamente bisogno di una ripulita.

Mi sono appena detta che rimedierò al disordine prima di cena, ma so già di avere detto una bugia: questo articolo voglio pubblicarlo tra tre giorni, ho ancora tutta la newsletter da scrivere e sabato mattina sono impegnata. Quindi è altamente probabile che nei prossimi giorni la mia cucina resterà in disordine, al massimo riuscirò a portare via quelle bottiglie e a dare una passata veloce al piano cottura, non più di questo.

Mi è chiaro che in questo momento la mia priorità è scrivere l'articolo, ma questo non elimina il fastidio. Se fossi stata più brava, meglio organizzata e più produttiva non avrei dovuto scegliere tra questo articolo e una cucina pulita. Nel mio mondo ideale sarei dovuta essere qui seduta a scrivere in una casa perfettamente in ordine.

Mi dibatto spesso in questo genere di contrasti. È come una estenuante partita di Tetris nella quale i pezzi non si incastrano mai tutti al loro posto.

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È appena terminato il mio Laboratorio sulla scrittura autobiografica, e già sto pensando a quando fare una seconda edizione sapendo che però, prima di questo, voglio finire di scrivere il mio prossimo romanzo, voglio ristrutturare il mio blog. Ho anche bisogno di incrementare la mia attività fisica: da gennaio ho ripreso a fare yoga, ma riesco ad andare alla mia scuola solo una volta a settimana, e ogni tanto faccio qualche assenza, quindi sarebbe davvero il caso di inserire almeno un paio di pratiche a casa.

Io sono davvero convinta che esista un mondo ideale in cui io riesco a incastrare tutte queste attività nel modo giusto. Penso sempre che se non tutto funziona alla perfezione nel meccanismo delle mie giornate è perché ho sbagliato nella pianificazione, o perché ho perso tempo da qualche parte. E probabilmente entrambe le cose sono vere, ma è vera anche un'altra cosa che tendo a non prendere in considerazione: se riuscissi davvero a fare tutte le cose che, in questo momento, desidero fare, poi vorrei aggiungerne altre, e sarei nuovamente da capo.

Quello che sto raccontando, sia chiaro, non significa che io sia una specie di highlander votato alla produttività. Tutto il contrario, il mio è un normale cervello umano, nemmeno troppo giovane, che fa come tutti gli altri cervelli: ovvero a un certo punto si spegne e comincia a cazzeggiare e a perdere tempo. Ma questo è un dato di fatto che la mia mente, presa a perfezionare i suoi piani per dominare il tempo, tende a ignorare.

Quattromila settimane

Si dice che il maestro arriva quando l'allievo è pronto. Penso si possa dire la stessa cosa dei libri. Ero convinta che l'ultimo libro di Oliver Burkeman non fosse ancora stato tradotto in italiano e mi ero sempre sentita troppo pigra per leggerlo in inglese. Poi invece mi sono accorta che c'è, è uscito da un paio di mesi. L'ho comprato subito e va bene così perché due mesi fa non avrei avuto il tempo per leggerlo.

Questo invece è il momento giusto, perché l'arrivo dell'estate segna sempre la fine di un ciclo e l'inizio di un altro e quest'anno in particolare perché tra maggio e giugno ho concluso due progetti importanti e ora comincio a lavorare a uno nuovo (anzi due).

Quello che stavo facendo era buttarmi a capofitto in avanti, scaraventarmi oltre, aprire subito quei due o tre fronti in modo tale da sentirmi subito nuovamente sopraffatta dalla sensazione di non avere mai abbastanza tempo per fare tutto quello che vorrei. Leggere questo libro mi ha aiutata a capire che, al contrario, farei bene a fermarmi un momento.

Il libro nell'edizione italiana si chiama Come fare per avere più tempo? e si tratta, purtroppo di un titolo fuorviante. Lo fa sembrare un libro sulla gestione del tempo mentre più che altro si tratta di un libro che ti suggerisce che faresti bene a smettere di cercare di gestire il tempo.

Nell'edizione originale si intitola Quattromila settimane, che sono la lunghezza di una vita pari a ottant'anni. Dire ottant'anni sembra una cosa, dire quattromila settimane sembra diverso. Le settimane passano veloci, si avvicendano una all'altra, certe volte nemmeno ce ne accorgiamo, diciamo cose del tipo: ancora due settimane e poi vado in ferie, la settimana prossima andrò a teatro, questa settimana ho saltato l'allenamento, la prossima recupero. Insomma una settimana da un certo punto di vista non sembra una unità di tempo così importante, e scoprire di averne a disposizione solo quattromila dall'inizio della nostra vita può essere spaventoso. Diventa terrificante se, come me, hai passato da un bel pezzo i cinquant'anni e di queste quattromila settimane te ne restano decisamente meno della metà (sempre nell'ipotesi di essere così fortunati da invecchiare).

La prima e ovvia reazione davanti alla constatazione che le nostre vite sono, in fondo, molto brevi, è quella di impegnarci a utilizzare al meglio il tempo che ci è concesso: capire quali sono le cose che contano davvero per noi e darci da fare, cercando di ridurre al massimo le perdite di tempo inutili. Smettere di procrastinare, organizzarsi, sfruttare bene il tempo che ci è concesso.

Tutto sommato sensato, e c'è ben poco da obiettare, se non fosse che questo genere di atteggiamento nei confronti del tempo, anche se in superficie ci sembra quello migliore e più saggio, nasconde non poche insidie.

Di queste insidie parla Burkeman nel suo libro, e mi viene un po' difficile riassumere i punti principali del suo ragionamento perché sono tanti e mi sono ritrovata in così tanto di quello che ho letto che praticamente c'è almeno una sottolineatura in ogni pagina.

Fare i conti con i limiti

La verità, dice Burkeman, è che anche quando abbiamo stabilito le nostre priorità e ci siamo dotati del miglior sistema possibile di organizzazione e gestione del tempo, non ne avremo mai abbastanza per fare tutto. È un gioco a cui non si può vincere: più tempo liberiamo, più ci saranno attività nuove e necessarie con cui riempirlo; più siamo produttivi, più il carico di lavoro aumenterà; più andiamo di fretta più resteremo indietro.

Il punto è che tutta questo impegno che mettiamo nel tentativo di gestire il nostro tempo e di non sprecarlo non è altro che un tentativo per evitare di fare i conti con due caratteristiche della nostra vita che ci spaventano: la nostra finitudine e la mancanza di controllo.

Il mondo moderno ci fornisce una riserva infinita di attività che sembrano imperdibili, e noi siamo costretti ad affrontare l'insanabile e inevitabile divario tra ciò che vorremo e ciò che è possibile.

Facciamo fatica ad accettare questo divario, a capire che non possiamo avere tutto e da qui la tendenza a saturare le nostre vite, a riempirle come delle scatole. Non riusciamo ad accettare l'esistenza dei limiti e ci sforziamo di continuo di allargarli.

Tutta questa organizzazione e pianificazione, ci serve anche a nutrire il nostro bisogno di controllo. Davanti a una agenda perfettamente organizzata, con tutte le attività bene ordinate e incasellate nei loro orari, possiamo illuderci che le cose andranno veramente così come le abbiamo programmate, ovvero che il futuro sia controllabile, mentre in realtà non lo è (ed è un bene che non lo sia).

Ma questo bisogno di controllo e il desiderio di non fare mai i conti con i nostri limiti può manifestarsi anche nella modalità completamente opposta. La procrastinazione spesso è figlia di questa stessa insidia: procrastiniamo perché non sappiamo fare i conti con il rischio del fallimento e con la realtà delle cose che è sempre per forza di cose imperfetta rispetto al nostro ideale.

La vita vera è sempre per forza una delusione rispetto alla fantasia. Ma questa, dice Burkeman, non è affatto una cattiva notizia.

Ancora una volta, il messaggio che sembra sconfortante è invece liberatorio. Poiché ogni scelta su come vivere nel mondo reale comporta la perdita di innumerevoli opzioni alternative, non c'è motivo di procrastinare o di non impegnarci sperando con ansia di riuscire a evitare tali perdite; è garantito che ci saranno. Il treno è già partito, che sollievo.

Le distrazioni

Poco fa volevo mandare un messaggio a mio marito e un attimo dopo mi sono trovata a guardare un reel sul perché in Cina non si vendono deodoranti. Poi una donna giovane con una bocca enorme mi voleva spiegare come applicare alla perfezione una cosa che non si chiama più rossetto ma tinta per labbra e che non va via nemmeno con lo struccante. E subito dopo c'era una tizia con un paio di orecchie da coniglio che cercava di rifilarmi quattro consigli su come riconquistare un uomo in caso l'avessi perduto, e questo per fortuna mi ha fatto ricordare il motivo per cui avevo preso in mano il cellulare.

Da quando Facebook (pardon Meta) ha deciso che dobbiamo guardare questi video me li trovo ovunque, e mi arrabbio perché una volta sui miei social vedevo quello che avevo scelto di vedere (più o meno) ma da un po' di tempo decisamente non è più così.

Capire che il nostro tempo è finito e che non saremo mai in grado di gestirlo alla perfezione non è di certo un via libera al cazzeggio perenne, anzi, tutto il contrario. Proprio per via di questa finitudine dovremmo capire quanto sia preziosa la nostra attenzione e proteggerla a ogni costo invece di regalarla al parco giochi di Instagram e compagnia.

Burkeman però dice un paio di cose interessanti e non scontate a proposito delle distrazioni digitali.

La prima è che non dobbiamo sentirci in colpa se finiamo invischiati in questo continuo scrollare succhia-tempo. Il punto è che là fuori ci sono un sacco di persone, preparate e brillanti, che sono pagate per fare esattamente questo: tenerci lì.

Questa che viene chiamata anche economia dell'attenzione sta diventando - o forse è già diventata - una vera e propria emergenza.

Poiché l'economia dell'attenzione è progettata per favorire ciò che è più avvincente rispetto a ciò che è più vero e utile, distorce sistematicamente la nostra immagine mentale del mondo. (...) Se pensate che questo problema non vi riguardi, che i social media non vi abbiano trasformato in una versione di voi stessi più arrabbiata, meno empatica, più ansiosa o più ottenebrata, c'è l'inquietante possibilità che sia già avvenuto. Il vostro tempo è stato requisito senza che ve ne accorgeste.

È vero, questo accade perché ci sono forze molto potenti che remano in quella direzione - e la favoletta che la tecnologia è neutra e che è colpa nostra se la usiamo male è, appunto una favoletta. Ciò non toglie però che noi non siamo in qualche modo complici. Perché è vero che queste piattaforme e i loro algoritmi sono progettate fin nei minimi dettagli per requisire la nostra attenzione, ma è altrettanto vero che a noi, in fondo, piace essere distratti, anzi non vediamo l'ora.

Ogni volta che siamo impegnati a fare qualcosa di importante e costruttivo per la nostra vita, che sia lavare i pavimenti, imparare a suonare la chitarra o scrivere finalmente quel dannato romanzo, ci scontriamo, di nuovo, con i limiti e con la nostra finitudine. Perché ognuna di queste attività comporta fatica, perché nell'azione tocchiamo con mano tutta la nostra imperfezione.

Abbiamo, dice Burkeman citando la poetessa Mary Oliver, un sabotatore interno:

il sè dentro di noi che fischia e bussa alla porta promettendoci una vita più facile se solo distogliessimo l'attenzione dall'attività significativa, ma impegnativa, in corso e la rivolgessimo a ciò che sta accadendo nella finestra del browser.

Le attività significative per la nostra vita, quelle che vogliamo veramente fare, ci costano comunque fatica e ci mettono davanti all'incertezza. È per questo che fuggiamo online, dove invece sembra che non ci siano limiti, dove possiamo continuare a scorrere feed ricchi di contenuti che non finiscono mai "in un regno in cui lo spazio non ha importanza e il tempo di dilata in un eterno presente"

Il punto è che quelle che classifichiamo come distrazioni non sono il motivo per cui ci distraiamo, ma luoghi in cui troviamo rifugio per non affrontare i limiti.

Per questo i vari programmi di detox digitale difficilmente funzionano, perché alla fine non vanno alla radice del problema: non eliminano lo stimolo a distrarci.

Quello lo possiamo eliminare - o magari possiamo imparare a controllarlo - diventandone come prima cosa consapevoli, imparando a osservarlo, e a prenderlo per quello che è: un bambino che pesta i piedi perché si sta annoiando, o è spaventato per il futuro, o teme di non essere all'altezza del compito che sta cercando di svolgere. La ricetta per rendere tutto piacevole ed eliminare così il canto delle sirene delle distrazioni digitali non esiste. Tutto sommato è liberatorio anche sapere questo, provare a riconoscere l'inevitabilità del disagio e imparare ad attraversarlo.

Coltivare l'imperfezione

Nel libro di Burkeman ci sono molti stimoli attorno a questo tema. Parla per esempio di come si diventato difficile leggere, perché la lettura è un'attività che non si piega al bisogno assillante di risparmiare tempo, ci obbliga alla lentezza. Parla anche di quello che è successo nel 2020, quando milioni di persone sono state costrette a premere il tasto pausa nelle loro vite. E fornisce inoltre alcune strategie interessanti per organizzarsi tenendo conto della finitudine del tempo e delle nostre esistenze.

Dice anche che la grande maggioranza delle cose che facciamo per risparmiare tempo in realtà non fa altro che farci perdere più tempo.

Questa è una cosa sulla quale mi è capitato spesso di riflettere. La fretta secondo me spesso è solo uno stato mentale. Quello che accelera veramente sono solo i nostri pensieri, che vengono spinti da una urgenza che sentiamo o che ci viene imposta da altri. Al contrario il tempo che occorre per fare le cose è più o meno sempre quello, cercare di comprimerlo non porta quasi mai a risultati effettivi (e meno che tu non stia correndo per prendere un treno, o qualcosa del genere).

Lavorare in fretta per esempio ci fa commettere errori, che poi dovranno essere corretti facendoci perdere ancora più tempo. Questa cosa succedeva regolarmente nell'ufficio dove lavoravo prima e non capivo come mai nessuno se ne accorgesse. C'era una specie di malattia dell'urgenza, sembrava che nulla potesse essere portato avanti se non sotto la pressione di una urgenza. E l'urgenza portava ad errori che poi dovevano essere corretti con urgenza in un ciclo continuo che produceva solo ansia, stanchezza, insoddisfazione... e perdite di tempo.

C'è un legame molto stretto tra il rapporto che abbiamo con il tempo e la modalità con cui conduciamo la nostra vita. Anzi non c'è proprio differenza, perché la vita è tempo, noi siamo il tempo. L'ansia del non avere abbastanza tempo va a braccetto con l'ansia della perfezione, in entrambi i casi cerchiamo di respingere l'idea stessa di avere dei limiti.

È bello invece pensare che possiamo fare un sacco di cose in modo altamente imperfetto e che va benissimo così. Nessuno ci sta guardando, non siamo il centro dell'universo, siamo esseri tutto sommato insignificanti e questo se da un lato ci atterrisce dall'altro invece potrebbe farci sentire meglio.

Non è strano che ricordarsi della nostra insignificanza sia un sollievo: significa comprendere che, per tutto questo tempo, ci siamo misurati secondo standard irrealizzabili. È una vera e propria liberazione: abbandonata la zavorra della definizione irrealistica di "vita ben vissuta", siamo liberi di prendere in considerazione molti più modi significativi per trascorrere il tempo. Siamo anche liberi di pensare che molte delle cose che già facciamo valgono più di quanto sospettassimo, e che finora le avevamo inconsciamente sottovalutate perché troppo ordinarie.
In quest'ottica, preparare un pasto nutriente per i nostri figli rimane importante anche se non ci farà vincere nessun premio culinario, e vale comunque la pena di scrivere un libro che qualcuno dei nostri contemporanei troverà interessante, anche se non siamo Tolstoj. O ancora, qualsiasi scelta di carriera è degna di una vita lavorativa, se rende le cose un po' migliori per le parti coinvolte.

Ho finito di scrivere la prima bozza di questo articolo alle 13.00 di venerdì 17 giugno. Ieri sera, prima di cena, ho tolto le bottiglie di plastica e ho dato una passata veloce al piano cottura. Imperfetto ma fatto.

Mentre scrivevo ho provato più volte l'impulso di abbandonare questa pagina e di dare un occhio ai social. Qualche volta ho resistito e sono rimasta qui, altre volte no, ma ho fatto in modo di restare distratta solo pochissimi minuti. Quello che ho fatto è stato far rallentare i pensieri e cercare di immergermi in quello che stavo facendo accettandone anche i momenti noiosi e la fatica. Alla fine non ho risparmiato tempo, ma ho comunque finito prima di quanto pensassi. Andando deliberatamente piano.