Mi sono accorta da tempo che, con il passare degli anni, il mio modo di leggere è cambiato. Una volta ero capace di leggere per ore, in immersione totale, e traevo dalla lettura un grande piacere. Mi era capitato di pensare che finché avessi avuto un buon libro tra le mani non mi sarei mai sentita sola.

Da diversi anni però non è più così. Spesso non finisco i romanzi che comincio e mi è sempre più difficile trovare qualcosa che mi appassioni davvero. I libri di altro genere - saggi, non fiction - li leggo quasi sempre pensando a cosa ne posso trarre di utile: un articolo per il blog, una riflessione per il gruppo Facebook, per esempio.

Ho dato la colpa di questi cambiamenti all'età, alla stanchezza, al lavoro, finché non ho letto un libro di Maryanne Wolf: Lettore, vieni a casa. Il cervello che legge in un mondo digitale. Non esagero dicendo che questo libro mi ha aperto gli occhi, e mi ha spinto a mettermi seriamente a lavorare su un problema che a malapena mi ero resa conto di avere.

Il cervello che legge

Maryanne Wolf è una neuroscienziata, insegna alla University of California di Los Angeles (UCLA) e il suo campo di ricerca riguarda lo studio dei processi di lettura e la dislessia.

L'essere umano, spiega Maryanne Wolf, non è nato per leggere. Mentre per un bambino è del tutto naturale imparare a parlare nella lingua che ascolta nel suo quotidiano, per imparare a leggere è necessario studiare.  L'alfabetizzazione è stata una delle conquiste più importanti dell'evoluzione della nostra specie: ha creato un circuito nuovo nel nostro cervello, e ha riplasmato la natura del pensiero umano.

Ciò che leggiamo, come leggiamo, e perché leggiamo cambia il modo in cui pensiamo.

Lettura e pensiero sono strettamente connessi

Ogni volta che il nostro cervello di trova davanti una parola, si attivano moltissimi processi cerebrali, che Maryanne Wolf illustra utilizzando la metafora di un circo con tante piste nelle quali si esibiscono tanti artisti diversi (i nostri neuroni). Così c'è la pista della visione, quella del linguaggio, quella della cognizione e dell'affetto. Già la lettura di una sola parola mette in modo tutto il circo, e le cose diventano ancora più complesse quando leggiamo frasi, e paragrafi, e storie.

I processi di lettura profonda impiegano tempo a formarsi. Leggendo noi evochiamo immagini (la nostra mente cioè elabora anche in modo visivo quello che legge); sviluppiamo empatia (assumiamo il punto di vista dell'altro e diventiamo capaci di capirlo); apprendiamo conoscenze di base, impariamo, e più cose sappiamo più diventiamo capaci di ragionamento e di pensiero autonomo.

In questa fase storica, stiamo attraversando una transizione epocale: il passaggio da una cultura basata su testi stampati a una cultura digitale. Oggi gran parte delle parole che leggiamo sono su uno schermo, e non su un pezzo di carta, e quello che cambia - che è cambiato e che sta cambiando - non è solo il tipo di supporto.

Nel passaggio verso una cultura digitale, cambia il modo di leggere, il modo di scrivere e in definitiva il modo di funzionare del nostro cervello e il nostro pensiero. E questa non è una faccenda da poco.  

Spesso si sente dire che oggi leggiamo meno rispetto al passato. Maryanne Wolf dice che questo non è vero; anzi, leggiamo di più: tra e-mail, messaggi, bacheche social, riviste online, è stato calcolato che un individuo medio consuma ogni giorno 34 gigabyte, l'equivalente di circa centomila parole (tanto quanto un romanzo di media lunghezza, per intenderci).

Per fare fronte a questa marea di informazioni che ci raggiungono in ogni momento della giornata, il nostro cervello adotta strategie per ridurre il sovraccarico cognitivo che ne deriva. In che modo?

  • Semplifichiamo
  • Elaboriamo le informazioni più velocemente
  • Seguiamo le priorità (cerchiamo un compromesso tra il nostro bisogno di sapere e la necessità di risparmiare tempo)

Diversi studi hanno mostrato che online non leggiamo veramente, ma facciamo una cosa che si chiama skimming: cioè una lettura veloce, superficiale, mirata a individuare le parole o i passaggi che ci interessano, e poi eventualmente, se ci sembra che la cosa ci interessi, torniamo indietro per mettere a fuoco meglio qualche dettaglio (probabilmente anche tu stai leggendo questo articolo in questo modo).

Questo sta diventando il nostro modo normale di leggere, perché più tempo passiamo a elaborare le informazioni in questo modo, più tendiamo a farlo indipendentemente dal supporto - monitor o carta.

È possibile - e questo è il campo di studio di Maryanne Wolf - che questo modo di leggere, tipico dell'era digitale, possa interferire con le nostre capacità di lettura profonda? E quindi andare anche a modificare il nostro pensiero?

Cioè che mi preme capire come scienziata è se noi lettori esperti, dopo molte ore (e vari anni) di lettura quotidiana su uno schermo digitale, stiamo sottilmente modificando l'attenzione attribuita ai processi chiave della lettura di testi più lunghi, che esigono maggiore concentrazione. La qualità della nostra attenzione durante la lettura - su cui si basa la qualità del nostro pensiero - cambierà inesorabilmente via via che procediamo da una cultura basata sul testo stampato a una cultura digitale?

Mantenersi in allenamento

Una risposta precisa a questo genere di domande non l'abbiamo, servirà tempo e studio per capire come si trasforma il nostro cervello - e se si trasforma - nel passaggio dall'era da carta stampata a quella digitale.

La mia esperienza diretta di lettrice mi porta a dire che sì, l'immersione nella cultura digitale ha in parte compromesso, o comunque modificato, le mie capacità di lettura profonda.

La stessa Maryanne Wolf suggerisce di analizzare le nostre vite di lettori e vedere se abbiamo osservato cambiamenti.

Tu, Lettore, per esempio, leggi con minore attenzione e forse ancora meno memoria per quello che hai letto? Hai notato, mentre leggi su uno schermo, se cerchi sempre più spesso solo le parole chiave per poi scorrere superficialmente il resto? (...) E, molto importante, sei forse meno in grado di trovare la stessa avvolgente soddisfazione che una volta traevi dalla tua vita di lettore? Hai cominciato a sospettare di non avere più la pazienza cerebrale di procedere nella lettura di un articolo o un libro lungo e difficile?

Io dovrei rispondere di sì a tutte queste domande. Soprattutto mi colpisce l'idea della pazienza: è vero, la mia mente è diventata impaziente, faccio fatica a concedermi il tempo necessario a leggere, approfondire, capire: a volte vorrei tutto e subito.

Anche la stessa Maryanne Wolf, che pure queste cose le studia di mestiere, si è accorta di questo cambiamento, e allora ha fatto un esperimento. Ha deciso di dedicare una certa quantità di tempo alla lettura (al di fuori di quella professionale), e ha scelto, per cominciare, un libro che le era molto piaciuto anni prima: Il gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse.

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Ragazza che legge - John Sloan - 1917

Ecco come è andata.

Quando incominciai a leggere il romanzo, provai l'equivalente letterario di un pugno alla corteccia cerebrale. Non ci riuscivo. Lo stile mi sembrava ostinatamente oscuro: troppo denso, con parole esageratamente difficili e frasi la cui costruzione sinuosa ne offuscava, anziché illuminarne, il significato.

La conclusione che ne ha tratto l'autrice è che l'abitudine a leggere in modo veloce e superficiale, per lo più scansionando le pagine cercando di catturarne il più velocemente possibile il significato, aveva compromesso le sue capacità di lettura profonda, rendendola impaziente e incapace di immergersi con piacere in testi complessi. E questo malgrado lei sia una studiosa, abituata comunque a smazzarsi articoli scientifici che di certo semplici non sono.

C'è però una buona notizia - almeno dal mio punto di vista è buona. La capacità di lettura profonda, se l'abbiamo appresa e allenata in passato, non è persa per sempre. Infatti, quello che Maryanne Wolf ha chiamato il suo esperimento, è poi andato a buon fine: costringendosi comunque a leggere quel libro ogni giorno, nel giro di due settimane, qualcosa è scattato, ed è riuscita a ritrovare il gusto e il piacere di leggere.

Sentii semplicemente che, infine, ero di nuovo a casa, ero ritornata la lettrice di prima

Non tutto è perduto quindi per i lettori che, come me, sentono di avere perso la propria casa. Possiamo tornare ad attivare i nostri circuiti di lettura profonda: magari li troviamo un po' arrugginiti, ma non sono spenti o compromessi per sempre.

Ma a che serve?

Ora mi immagino una lunga serie di obiezioni. In fondo chi se ne frega? Forse è normale che non ci interessi più leggere libri scritti cinquanta o cento anni fa. Le regole della comunicazione oggi sono diverse: frasi brevi, concise, andare dritto al punto, semplicità. Perché dovremmo preoccuparci della lettura profonda?

Su questi temi il dibattito è aperto, e molto complesso. Quello che preoccupa studiosi come Maryanne Wolf è che abbandonare la lettura e lo studio di contenuti complessi, articolati, concettualmente difficili ed espressi con modalità ricche di sfumature possa alla lunga impoverire e non di poco il nostro modo di pensare.

Mi preoccupa il fatto che siamo già a un passo dal non riconoscere la bellezza in ciò che è scritto. E mi preoccupa il fatto che siamo anche più vicini alla rimozione dei pensieri complessi quando non si adattano alla restrizione del numero di caratteri usati per trasmetterli (...) La catena digitale che conduce dalla proliferazione delle informazioni fino alle porzioni minime, e senza sapore come una sbobba, consumate quotidianamente da molti di noi, avrà bisogno di qualcosa di più che non una vigilanza sociale, se non vogliamo che la qualità della nostra memoria e della nostra attenzione, la percezione della bellezza e il riconoscimento della verità, insieme alle complesse capacità decisionali basate su tutte queste cose, si atrofizzino lungo il cammino.

Difficile da seguire la citazione qui sopra? Sì, io vi consiglio di leggerla e rileggerla, perché quello che ha fatto Maryanne Wolf nel suo libro è proprio scrivere in quel modo articolato, complesso, e ricco di sfumature che richiede un po' più di impegno della lettura dell'ennesimo post dell'influencer di turno.

Aggiungo io: proprio in questi mesi, con la pandemia, stiamo attraversando una crisi davvero grave, forse la prima nella storia a coinvolgere quasi l'intero pianeta nello stesso momento. Le questioni in gioco sono enormi: la salute, l'economia, la tenuta sociale, il futuro delle democrazie. Niente di quello che sta accadendo può essere capito in modo semplice, o ridotto a slogan, eppure stiamo assistendo ad un dibattito pubblico appiattito, che tende a negare la complessità e l'interdipendenza delle questioni sul tappeto, e trasforma tutto in lotte tra schieramenti opposti: o sei negazionista o tifi virus, o salute o economia, è colpa dei giovani e della movida, o è colpa dei vecchi e della bocciofila. E non è solo una fatto di fake news o di gente che parla senza avere le competenze necessarie (anzi, di competenti che si contraddicono ne abbiamo visti fin troppi). È proprio l'incapacità di cogliere l'estrema complessità e delicatezza della situazione e questo bisogno, quasi compulsivo, di ridurre tutto ai minimi termini.

Tornando a Marianne Wolf e al suo lavoro: lei propone di andare verso un cervello bi-alfabetizzato, capace sia di orientarsi nel mondo dei concetti complessi e delle sfumature del linguaggio, che nella comunicazione veloce, semplificata e immediata della cultura digitale. A chi interessasse approfondire questo aspetto, anche in relazione all'educazione dei bambini, consiglio di leggere il libro.

Lavoro profondo

Dopo quello di Marianne Wolf, ho letto un altro libro nel quale torna questo tema della profondità e della complessità, sia pure con presupposti e obiettivi del tutto diversi. Il libro si chiama Deep work. Concentrati al massimo. Quattro regole per ritrovare il focus sulle attività davvero importanti e l'autore è Cal Newport, docente e ricercatore di informatica alla Georgetown University. Cal Newport è anche autore di diversi libri che possono essere fatti rientrare nella categoria della cosiddetta crescita personale, o dell'auto-miglioramento se si preferisce.

Deep Work letteralmente significa lavoro profondo, o anche lavoro intenso (come giustamente è stato tradotto nella versione italiana), ed è quello che secondo Newport è necessario imparare e praticare per ottenere risultati significativi nelle nostre attività.

L'autore parte dall'assunto che l'utilizzo massiccio delle tecnologie di rete (e-mail, social media, messaggistica istantanea) abbia un effetto deleterio sulle nostre capacità di concentrazione (e questo è abbastanza difficile da negare). A lui però non interessa ragionare sui possibili effetti a livello sociale e culturale di questo cambiamento, non entra nel dibattito e si concentra invece su un aspetto più pragmatico e individuale.

Lo spostamento della nostra cultura del lavoro verso un atteggiamento superficiale - a prescindere dal fatto che pensiamo sia negativo o positivo - offre una grande opportunità economica e personale a quei pochi che comprendono la potenzialità insita nell'opporsi a questa tendenza, per dare priorità a un lavoro che vada in profondità

In parole povere, quello che Newport dice è questo: in un mondo in cui tutti lavorano in modo distratto e superficiale, se tu al contrario impari l'arte della concentrazione e della profondità, ne avrai un vantaggio competitivo che aumenterà le tue possibilità di avere successo e soddisfazione dalla tua professione. E - corollario non indifferente - probabilmente ti sentirai anche molto meglio, perché una mente a fuoco è anche una mente felice.

Ci sono molte argomentazioni a favore della profondità. La nostra vita è in buona sostanza fatta di quello a cui scegliamo di prestare attenzione. Se passiamo buona parte della giornata concentrati sulla nostra attività -  e non a leggere gli ultimi accorati e incazzati post su Facebook, per dire -  se, come bravi artigiani, ci mettiamo lì con impegno, dedizione e serietà a svolgere i nostri compiti, abbiamo buone possibilità di trarne almeno due grandi vantaggi.

Il primo è diventare più bravi, efficaci e produttivi nel nostro lavoro e quindi avere maggiori possibilità di ottenere risultati significativi nel campo in cui ci stiamo applicando.

Il secondo è di arrivare a fine giornata forse stanchi ma soddisfatti, con la sensazione di non avere sprecato il nostro tempo e la nostra attenzione.

Una vita vissuta in profondità è una vita di valore, da qualunque punto di vista.

Una buona metà del libro di Cal Newport è dedicata a descrivere strategie per organizzarsi in modo da dedicare alcune porzioni del nostro tempo al lavoro inteso, concentrato, senza interruzioni, al massimo delle nostre capacità.

E questo non significa affatto diventare dei maniaci del lavoro, anzi, tutto il contrario. Cal Newport è uno che non lavora mai oltre un certo orario (almeno questo è quello che racconta nel libro), in modo da potere dedicare la parte finale della giornata alla famiglia.

Ho sperimentato io stessa, e l'ho visto in molte persone: il tempo di lavoro può dilatarsi a dismisura fino a fagocitare ogni cosa. Ma, se vogliamo essere onesti, si tratta spesso di lavoro di scarsa qualità: le nostre capacità di concentrazione sono limitate, nessuno può lavorare dodici o quattordici ore al giorno al massimo delle proprie potenzialità (se non forse per periodi brevi di qualche giorno). Quello che si fa in dodici ore di lavoro superficiale e distratto, si può fare in sei ore di lavoro concentrato, e il resto è tutto tempo guadagnato per altro.

È vero che la maggioranza delle professioni comprendono anche compiti superficiali e poco impegnativi, che però vanno fatti lo stesso. La cosa buona di questo libro è che è pieno di suggerimenti su come bilanciare i diversi aspetti del proprio lavoro in modo da riservarsi comunque tempo per il lavoro intenso, che spesso è quello che ci fa fare i veri passi avanti.

Esperimenti

Probabilmente non è un caso che io abbia letto questi due libri, uno di seguito all'altro, proprio in questo momento. Ho notato che le mie capacità di concentrazione, nella lettura così come nella scrittura e nelle mie altre attività, si sono molto deteriorate. Non avere limiti di tempo imposti dall'esterno è un'arma a doppio taglio perché è più facile cedere alle distrazioni. Senza accorgermi sono scivolata spesso in una modalità di lavoro in cui la mia attenzione tendeva a essere frammentata. Mi metto lì, scrivo, mi distraggo, sbircio un po' i social, rispondo a qualche messaggio, controllo qualche statistica, poi torno a scrivere, mi accorgo che mi manca una informazione e la vado a cercare su internet e ci perdo una mezz'ora... e via dicendo, così tutto il giorno. Alla fine magari sono stata seduta al computer otto ore, ma quante di queste ore le ho veramente dedicate a lavorare con concentrazione e al massimo delle mie capacità?

Da quando ho focalizzato il problema ho cominciato a fare qualche esperimento. Una cosa semplice che sto facendo è programmare le sessioni di lavoro di intenso con un timer di un'ora e mezza durante la quale mi impegno a fare quello che devo fare - sostanzialmente leggere e scrivere - senza distrarmi. È incredibile la quantità di lavoro che si riesce a fare in un'ora e mezza se si sta veramente concentrati. A tratti la mente scalpita un po', ma se non si cede alla distrazione, piano piano la concentrazione si fa più intensa, entriamo in profondità in quello che stiamo facendo, e diventiamo non solo più produttivi, ma anche più creativi. È lì che facilmente si può entrare in quello stato di flow che produce soddisfazione e piacere.

C'è un legame tra attenzione e felicità. Lo dicono molti studiosi anche di discipline diverse: il cervello costruisce l'idea che abbiamo del mondo a partire da ciò a cui prestiamo attenzione. E questo dipende, in buona parte, dalla nostre scelte. Questo davvero dipende da noi, e non ci sono scuse.