Ti sei mai chiesto come si forma il senso del gusto? Come nasce e come si trasforma nel corso della nostra vita?
Quello che ci piace e quello che non ci piace può rivelare molto su di noi e sul nostro rapporto con il mondo. Ce lo racconta in questo articolo Giorgio Giorgetti, personal chef, sommelier e giornalista (per non farci mancare niente).


Basta saper contare fino a quattro (anzi, meglio, fino a cinque) per capire tutto sul senso del gusto. Anche perché ne abbiamo una conoscenza innata: dopo il tatto, il gusto è il secondo senso che si forma durante la gestazione. E non per caso.

Sapore di mamma

La scienza ha dimostrato che, da prima della nascita fino allo svezzamento, ciò che la madre mangia avviluppa il bimbo in un grande plaid di sapori sicuri e confortanti. Questo mondo tranquillo ci avvolgerà con tale efficacia che, da grandi, daremo la preferenza agli alimenti che sono stati filtrati dalla placenta o si sono disciolti nel latte materno.
Basterebbe questo per definire il gusto, ancora una volta, come il senso della memoria. Ma le fin troppo abusate madeleine di Proust hanno decisamente annoiato. Chiudo quindi la porta a questa suggestione per aprirne un'altra, altrettanto interessante e, credo, un po’ più nuova: il gusto è un senso sociale.
O, meglio, è il senso che può fornire alcuni elementi per investigare sul rapporto che abbiamo con chi ci circonda.

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L'accettazione ha un senso!

Il rapporto madre-figlio attraverso i sapori condivisi dovrebbe farci comprendere che il gusto non è solo uno dei sensi principali che ci collegano al mondo esterno, ma è il primo a ricevere una fondamentale (e indispensabile) influenza dagli altri, dagli adulti della nostra specie.
È, insomma, un senso sociale per eccellenza.
Ancor prima di nascere, veniamo a conoscenza di ciò che mangia la nostra famiglia. Il gusto è un senso che apprende e si apprende. Imparando ad apprezzare il cibo che nutre la nostra famiglia, noi ne entriamo a far parte di diritto. Questo apprendimento, però, ci mette davanti anche a un futuro e ipotizzabile scenario: se mangiamo determinati alimenti, faremo parte del nostro gruppo sociale. Se dovessimo rifiutarli, ne saremo esclusi.

Crescendo e apprendendo

Ma questo è naturale, poiché non restiamo feti o infanti per sempre.
Nasciamo, cresciamo ed entriamo in contatto con realtà diverse. Di conseguenza, anche il nostro senso del gusto si modula, poiché apprende.

Se vogliamo capire che cosa abbiamo appreso lungo la nostra esistenza, dobbiamo fermarci e tornare ancora una volta all'inizio di tutto. Proprio in quei primissimi istanti di vita, in cui l'istinto la fa da padrone, in cui siamo davvero vicinissimi ai nostri primi antenati che calcarono il suolo del pianeta. Il bambino, come l'ominide, ha una percezione pura di cinque e solo cinque sapori.

Elenchiamoli ancora una volta: dolce, amaro, salato, aspro… Più un altro che vi dico dopo. Il bambino non ha bisogno di sapere altro. Noi stessi, dopo migliaia di anni, non abbiamo bisogno di sapere altro, anche se un pochino (ma non tanto) ci siamo evoluti.

Esplorando con la bocca

Per istinto, il bimbo porta tutto alla bocca. Sa che nutrirsi è fondamentale e che la ricerca di cibo non deve smettere mai, neppure quando è sazio. Attraverso la bocca mappa l'ambiente che lo circonda, così da scoprire la reale appetibilità di ciò che incontra e se, alla bisogna, può esser sfruttato. Quindi, le nostre papille gustative devono informarci, prima di qualsiasi altro senso, se ciò che introduciamo nel cavo orale è buono per noi oppure no. È un cibo nutriente? Un veleno? Un alimento che potrebbe procurarci qualche debilitante problema fisico?

Che l'evoluzione ci abbia concesso soltanto cinque gusti (o forse qualcuno in più, ma non è chiaro), è perché quelli bastavano e avanzavano. Il dolce è il gusto primario, per la nostra specie, quello che desideriamo di più e che percepiamo con maggior facilità: nelle sostanze dolci ci sono zuccheri, importante fonte energetica. La percezione del salato nacque, molto probabilmente, quando l'uomo si allontanò dal mare, in modo che potesse riconoscere alimenti che lo aiutassero a mantenere la concentrazione dello ione sodio a livelli accettabili. Lo ione sodio non è molto diffuso in natura, mentre è molto importante per il corretto funzionamento dell'organismo.

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L’umami, il quinto sapore che avevo lasciato in sospeso, non è sempre facile da avvertire. Potrebbe essere descritto come "saporito ma non salato". Per noi occidentali questo gusto è un po' sfuggente da definire, eppure è ben presente nella nostra dieta e fa un po' da guida nell'ombra verso determinate scelte. Si pensi che l’umami è il sapore caratteristico del concentrato di carne e di un po’ tutti i concentrati in genere. Del concentrato di pomodoro, per esempio: non a caso, il pomodoro è il vegetale più ricco di umami in natura. Del concentrato di latte: pensate a un formaggio stagionato! Il Parmigiano Reggiano, per esempio, è ricchissimo di umami, di questo gusto intenso e pieno, che attiva la salivazione esattamente come fa la carne alla brace. Ci siamo, più o meno? Ecco, questo gusto ci guida verso proteine nobili e indispensabili.

I campanelli d'allarme

L'amaro è invece un vero e proprio sapore proibito. Il nostro corpo rifugge per istinto da ciò che è amaro. Lo sopporta solo se in piccolissime dosi. Il motivo è semplice: la maggior parte delle sostanze amare si trova nelle piante che hanno sviluppato la strategia di accumulare metaboliti secondari amari (tipo i polifenoli, i flavonoidi, gli isoflavoni, i terpeni e i glicosinolati) per difendersi dagli erbivori e dai parassiti. E poiché queste concentrazioni non sempre ci fanno bene, l'amaro, per noi, è il sapore del veleno. Non per nulla il bimbo sputa con buffe smorfie tutto ciò che ha questo sapore!

Il gusto acido è quello del cibo avariato, che ha subìto una fermentazione a dir poco sospetta. Avete presente lo yogurt? Ecco, questo è un classico adattamento sociale a un alimento che, d'istinto, ci allontanerebbe e che possiamo tollerare e gradire solo fino a un certo punto. Uno yogurt davvero acido (ossia il contrario di ciò che ormai si trova sul mercato) fa fare le boccacce al nostro bimbo interiore.

Il nostro bimbo interiore, appunto!
Benché alcune pietre miliari le porteremo in noi tutta la vita, altre le cambieremo e le modificheremo a seconda di come vivremo il rapporto con gli altri. Il gusto è un senso molto facile da manipolare, perché sensibilissimo agli stimoli esterni.

Niente come la mamma

Comprendere attraverso esempi è più facile che spendere mille parole. Parto da un caso classico, che più o meno ci accomuna tutti e che io, nel mio mestiere, mi sento ripetere più di quanto vorrei: "chissà se questo piatto sarà mai buono come quello che fa mia mamma, mia nonna, mia zia, ecc. ecc."?

La risposta a questa domanda è sempre una: no. Non lo sarà mai. Non ci penso neppure ad accettare sfide perse in partenza. Nessuno può competere con un gusto acquisito durante l'infanzia. Non si tratta del fatto che quella preparazione sia davvero la migliore che abbiate mai mangiato. Si tratta invece di un diapason che, risuonando, attiva una serie di concatenazioni mentali che vi riporta a quel tempo. Anzi, a quel tempo idealizzato, perché nel frattempo avete avuto la possibilità di riscrivere e correggere tutta la vostra infanzia, trasformandola (a meno che ne abbiate avuta una da incubo) in una sorta di meraviglioso paradiso in cui tutto andava per il meglio.

Questi gusti acquisiti vi proteggono, proteggono l’integrità del vostro equilibrio interiore in modo così perfetto che tante persone non se la sentono di spostare baricentri tanto saldi. Tanto più che, socialmente parlando, restare fermi nei propri gusti non è visto come azione riprovevole. Anzi… de gustibus... Se tutto è solo una questione di gusto, che male c’è?

La digressione delle streghe

Però l'uomo cresce: come specie e come individuo. Volente o nolente, prova nuove cose, proseguendo a esplorare con la bocca. Questa crescita, che a volte implica un cambiamento, a volte no, è molto interessante. Il gusto, l'ho già detto, è un senso sociale.

Non sottovalutate questo aspetto, poiché lo è in maniera profondissima. A riprova, permettetemi una piccola digressione. Pensate per un attimo alle streghe: donne emarginate per eccellenza dalle convenzioni sociali, che per comune convinzione godevano a ingerire cibi improponibili, spesso amarissimi e putrescenti. Chi mangia altro dalla comunità, è fuori dalla comunità.

Non è un caso che la moderna fitoterapia sia sorta in ambiti extrasociali o comunque metasociali, dove figure super partes (sciamani, in caso positivo, o presunte streghe, in caso negativo) potevano azzardarsi a curare (o a maledire) attraverso preparazioni che contrastavano i normali istinti alimentari di una comunità. La medicina è amara per tradizione, esattamente come il veleno!

Assaggiare la vita sociale

Portata la riflessione a livello personale, ecco che il gusto diventa la cartina tornasole della nostra vita sociale e di quanto c'interessi appartenere a un gruppo. Non stupisca, quindi, che soprattutto in età adolescenziale, si abbiano i mutamenti di gusto più significativi, che possono cristallizzarsi per sempre. Il sapore di certe bevande più o meno proibite, il fumo, l'alcol, una propensione particolare verso l'acre e l'amaro… Non sono tanto segnali di ribellione (anche), quanto desiderio di adeguarsi a un nuovo gruppo, a una classe sociale, a uno stile di vita diverso e contrario a quello familiare. Portando magari a conseguenze che durano non soltanto nel singolo individuo, ma in intere generazioni di individui.

Tutta colpa dello spumante

In Italia, uno degli esempi più eclatanti si verificò verso la seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso. Può darsi che qualcuno ricordi le tante pubblicità dello Spumante Brut President Reserve Riccadonna (tuttora prodotto). Ai tempi, fu il primo spumante brut (ossia secco, non dolce come l’arcinoto Asti Moscato, per esempio) a fare una pubblicità martellante basata sulla classe, la raffinatezza, l'eleganza. L'idea, probabilmente, era candida: rendere lo spumante brut il vino per le occasioni davvero speciali.
Ma la realtà italiana d'allora era ben altra: il vino con le bollicine si stappava solo ed esclusivamente con i dolci delle festività e con nient’altro. Panettoni, quindi; colombe, pandori e così via. Il povero President, che in fin dei conti voleva vendersi (forse) come vino per incontri romantici, cene intime, pranzi sfarzosi, si ritrovò a soppiantare il più banale Moscato nella scelta di persone che aspiravano a una classe sociale più elevate ed elegante. Una scelta diversa che ci facesse entrare nel nuovo gruppo degli intenditori, dei raffinati.

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E fu così che tutta questa gente cominciò a bere spumante secco con i dolci.
Ora, fisiologicamente, l'incontro di una sostanza non dolce con una dolce provoca una spaccatura nel gusto e, di solito, il corpo reagisce con il disgusto.
Quasi un'intera generazione, invece, si “addestrò” a sopportare questo supplizio, tanto da goderne, tanto da autoconvincersi che quel saporaccio “pulisse la bocca” dalla dolcezza del panettone. Molti non dovettero neppur vedere queste pubblicità, ma bastò loro imitare familiari, amici e conoscenti. Ancora una volta, bere e mangiare ciò che beve e mangia il gruppo a cui si vuole appartenere ci rende partecipi di un fortissimo legame.

Sono parte di voi

Questa triste usanza sta un po' passando, soprattutto nelle nuove generazioni. Ma resta ancora molto forte in persone che hanno con il dolce un rapporto conflittuale. Queste punizioni inconsce (perché di questo si tratta) vorrebbero mitigare una certa dipendenza verso i cibi dolci, legame che si vorrebbe meno “intimo” perché ci si sente grassi, esteticamente inadeguati in mezzo agli altri e con noi stessi, sempre in lotta con la bilancia. Ecco come rilevare una distorsione del gusto possa diventare campanello d'allarme per un disagio più profondo, sempre comunque legato al concetto di accettazione.

Gli esempi potrebbero continuare per pagine e pagine. Ma per vostra fortuna mi fermo qui.
Alla fin fine, ciò che volevo dimostrare è che noi mangiamo ciò che ci permette di identificarci con un gruppo. Crescendo, però, moduliamo questa strategia per fini sempre più personali: per tornare all'esempio del brut con i dolci, non è raro assistere a una “ribellione” adolescenziale che accetta una perversione gustativa per contrastare le consuetudini familiari, per farsi accettare da un altro gruppo, in cui tale abitudine impera. Tale convinzione può essere del tutto inconscia, non deve per forza essere seguita da atti reali. Esattamente come l'adolescente che riempie la propria camera dei poster dei suoi idoli, non è detto che riesca a frequentarli davvero. Però tenderà a comportarsi come loro.

Ultima barriera di difesa

Finisco: se il gusto è il senso che più rivela il nostro rapporto con il mondo sociale, al tempo stesso è anche la possibile barriera per difenderci da quel mondo. Rimanere fedeli a determinati sapori tradizionali, non provare nessuna o pochissima curiosità nei confronti del cibo, spesso indica una personalità introversa, con un forte mondo interiore, ma con un equilibrio delicato, che non può essere messo a repentaglio impunemente. Neppure da un abbinamento azzardato fatto da un grande chef. Il gusto, insomma, in ogni età della nostra vita, resta uno degli specchi in cui la nostra immagine risalta più nitida e vera, senza maschere e forzature.


È la prima volta che ospito un altro autore sul mio blog. Ho chiesto a Giorgio di scrivere questo articolo per noi perché il tema mi ha affascinato. Mi piace imparare cose nuove e mi piace anche il modo in cui Giorgio parla di cucina: con un taglio speciale, che hanno solo le persone che nella vita hanno fatto molteplici esperienze professionali e che poi a un certo punto creano uno spazio tutto loro per farle convergere in qualcosa di nuovo. Per seguirlo ecco i suoi riferimenti:

Fammi sapere se l'articolo ti è piaciuto. A presto!