Tempo fa mi è capitato di leggere uno strano articolo su Zenhabits, uno dei miei blog preferiti.

Si chiama La ragazza che guardò oltre le illusioni ed è un po' a metà strada tra un post e un racconto.

C'è questa ragazza che ha avuto un giornata un po' così così.
Prima un collega ha detto cose poco piacevoli sul suo lavoro e lei si è sentita avvilita e vorrebbe dimostrare al collega scortese quanto si sbaglia. Poi il suo ragazzo ha lasciato i piatti sporchi nel lavandino, e lei si è arrabbiata per la mancanza di considerazione che lui ha dimostrato nei suoi confronti.

Il giorno dopo questa ragazza torna al lavoro e si accorge di una cosa: anche le altre persone sono spesso arrabbiate, frustrate, preoccupate per qualcosa. Prima non ci aveva mai fatto caso, ma ora lo legge chiaramente in faccia a tutti, compresi gli sconosciuti.

Persone sulla scala della metro

Immagine Ibar Silva

Poi succede qualcosa di strano. La ragazza vede che ogni persona si comporta come se portasse dentro di sé un tesoro molto prezioso. Una gemma nascosta che deve essere continuamente protetta e controllata.

Quando le persone interagiscono tra di loro, tutto ruota attorno alla loro gemma. Qualcuno forse ne vuole mettere in discussione il valore? Qualcuno forse la vuole attaccare? Ogni persona deve proteggere questo immenso tesoro dagli attacchi degli altri e assicurarsi che la gemma sia al sicuro.

Ma la ragazza a un certo punto capisce una cosa: quella gemma in verità non esiste. Non c'è nulla da proteggere, non c'è nessuna minaccia.

Così quel giorno la ragazza smise di proteggere la gemma immaginaria. Smise di cercare di avere ragione, di essere considerata brava, competente, intelligente e perfetta, e di dovere considerare se stessa come una brava persona tutte le volte. Smise di pensare che le parole e le azioni delle altre persone avessero a che vedere con quello che lei immaginava di essere. Smise di cercare di proteggere la sua posizione e l'immagine di sé.

Lasciando andare queste illusioni si sente più felice. Si accorge che la frustrazione e la maleducazione delle persone non ha niente a che fare con lei: gli altri stanno solo cercando di proteggere la loro gemma immaginaria. Ma lei sa che non esiste nessuna gemma, e ora se ne può andare tranquilla incontro al suo giorno cercando di rendere il mondo un posto migliore.

Questo articolo mi è tornato in mente qualche giorno fa, mentre rileggevo le ultime pagine del libro di Martin Seligman Imparare l'ottimismo. Qui Seligman fa un bel ragionamento sui motivi per cui al giorno d'oggi così tante persone sperimentano la depressione.

E in questo ragionamento c'entra anche questa gemma immaginaria che tutti noi crediamo di dovere proteggere a ogni costo.

Ma prima di parlarti di questo ti chiedo di avere un attimo di pazienza, perché prima devo dare un po' i numeri ;)

Quante persone soffrono di problemi psicologici?

L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dice che nel mondo oltre 350 milioni di persone soffrono di depressione.
In Giappone le persone che sono state colpite dalla depressione almeno una volta nella vita sono il 3% della popolazione. Negli Stati Uniti il 16,9%. Nella maggior parte dei paesi si ammala di depressione una percentuale che varia tra l'8% e il 12%.
Grossomodo significa che ogni dieci persone che incontri, almeno una ha sofferto (o soffre tutt'ora) di depressione.

I dati italiani dicono che la depressione ha toccato almeno una volta la vita del 13,5% della popolazione. Quasi il 5% sviluppa o ha sviluppato una fobia specifica. L'ansia sociale, il disturbo post traumatico da stress e l'ansia generalizzata circa il 2%, e un po' meno il disturbo da attacchi di panico e l'agorafobia.

Quasi una persona su cinque ha sofferto almeno una volta nella vita di un disturbo psicologico.

Una persona su cinque è davvero tanto.

Tra l'altro questi dati sono di qualche anno fa, e probabilmente le cose non sono andate migliorando. Anzi, secondo l'OMS, nel 2020 la depressione diventerà la seconda malattia più diffusa al mondo dopo le patologie cardiovascolari.

Perché c'è tutta questa depressione?

La domanda se l'è fatta, tra gli altri, anche Martin Seligman, uno degli psicologi più autorevoli al mondo, nonché fondatore della psicologia positiva.

Nel 1989 Seligman ha pubblicato un articolo che si chiama: Why is there so much depression today - Perché c'è così tanta depressione al giorno d'oggi? - articolo che poi ha ripreso anche in conclusione del suo libro più famoso: Imparare l'ottimismo. Come cambiare la vita cambiando il pensiero.

In sostanza dice che la depressione ha molto a che fare con il fatto che nutriamo un interesse eccessivo per il nostro sé, e ci occupiamo poco del bene comune.

La società in cui viviamo, dice Seligman, esalta il sé. La gioia e il dolore - i successi e i fallimenti - dell'individuo sono considerati importantissimi.

A noi sembra ovvio che le cose stiano in questo modo. Siamo figli del nostro tempo e siamo abituati a pensare che l'affermazione personale sia una delle faccende più importanti della vita.

Ma non è stato sempre così.
Prendi per esempio il lavoro.

Un tempo, il lavoro era considerato degno e accettabile se consentiva di fare la spesa. Oggi non è più così. Deve avere altri significati. Deve prevedere possibilità di carriera. Deve garantire una buona pensione. I colleghi devono essere congeniali e l'impegno deve avere un significato.

Aumentano le possibilità di scelta, aumentano le aspettative, aumenta l'importanza del sé che vuole e può scegliere il suo destino.


Questa forma così marcata di individualismo è abbastanza recente. In passato la coesione sociale e il senso di comunità erano più forti. Proteggevano l'individuo e allo stesso tempo ne limitavano le potenzialità.

Seligman guarda alla società americana degli anni sessanta e individua alcuni eventi che hanno contribuito a indebolire l'impegno delle persone nella dimensione pubblica e sociale.

Cita le uccisioni di John Fitzgerald Kennedy, Malcom X, Martin Luther King e Robert Kennedy che avvennero nell'arco di pochi anni, tra il 1963 e il 1968. Cita la guerra del Vietnam: un conflitto lungo e inutile da cui gli americani uscirono sconfitti. E poi lo scandalo Watergate che aprì il decennio successivo.

Questi eventi - dice Seligman - hanno distrutto la speranza di un futuro migliore in una intera generazione di americani.

Abbiamo perduto la speranza che la nostra società potesse curare i mali del mondo. Molte persone della mia generazione, spinte dalla paura e dalla mancanza di speranza, hanno cambiato la direzione del loro impegno, rinunciando a carriere di servizio pubblico per dedicarsi a professioni che quanto meno potessero renderci felici in quanto individui singoli. (...) I nostri figli oggi si domandano cosa il mondo può fare per loro, mentre i nostri genitori si domandavano cosa loro potessero fare per il mondo.

Nell'epoca contemporanea siamo diventati forse più forti come individui, ma più deboli come società. Per motivi che adesso sarebbe un po' complesso indagare è crollata ovunque la fiducia nella dimensione pubblica. Nello stesso momento certi meccanismi di solidarietà e di appartenenza si sono indeboliti, lasciandoci sempre più soli con i nostri problemi.

Le occasioni di fallimento nella vita sono molto numerose. Raramente otteniamo tutto quello a cui aspiriamo. Frustrazioni, sconfitte e rifiuti fanno parte dell'esperienza quotidiana. In una cultura individualistica come la nostra, che dà poca importanza a tutto quello che non riguarda il sé, si ottiene poco conforto dalla società quando si devono affrontare perdite personali. Le società più "primitive" proteggono con ogni mezzo l'individuo che subisce delle perdite e impediscono così che lo stato di impotenza si trasformi nel venire meno della speranza.

Questi temi sono stati tra l'altro il cavallo di battaglia di molti sociologi, anche in Italia. Però sociologi e psicologi non sono tanto abituati a parlare tra loro. Quando si cerca di comprendere le cause del disagio mentale si parla di cause psicologiche (infanzia, traumi), oppure di cause biologiche (la genetica), ma si parla pochissimo delle cause sociali, che invece hanno la loro importanza come spiega Seligman in questo saggio.

Viviamo in una cultura che esalta l'individuo, le sue libertà, la capacità di controllare la propria vita, la realizzazione personale. Il rovescio della medaglia è che i fallimenti, le perdite, e le sconfitte personali ci fanno molta paura. Si traducono in una immagine negativa di noi stessi che ci fa soffrire e ci rende infelici, e più esposti ai disturbi d'ansia e alla depressione.

La depressione deriva in parte da un eccessivo interesse per il sé e da uno scarso impegno per il bene comune. Questo stato di cose è pericoloso per la nostra salute e per il nostro benessere esattamente come la mancanza di esercizio e il colesterolo. Gli effetti di una eccessiva centratura sul proprio successo o fallimento e la mancanza di un serio impegno per la comunità sono un'accresciuta depressione, un cattivo stato di salute e un'esistenza priva di significato.

Correggere il tiro, dedicare un po' di attenzione al resto del mondo, diventa così una tattica antidepressiva. Dopo Seligman, tanta psicologia sta battendo questo tasto: empatia, connessione, gentilezza, compassione, gratitudine sono essenziali al nostro benessere.

Allora può essere una mossa intelligente cercare di ritrovare la connessione con quel mondo fuori da noi che troppo spesso finiamo con l'ignorare perché siamo troppo presi dal bisogno di proteggere e nutrire il nostro sé.

Qualche idea pratica?

  • fare una donazione a un ente che si occupa di aiutare le persone in difficoltà

  • dedicare qualche ora al volontariato (c'è solo l'imbarazzo della scelta)

  • frequentare di più negozi, locali e organizzazioni del territorio in cui viviamo

  • praticare quelli che gli americani chiamano Random Act of Kidness, di cui ho già parlato nell'articolo sugli esercizi di felicità

L'idea è di spostare l'asse della nostra attenzione da noi stessi verso altri, per contrastare questa forma un po' esasperata di individualismo che ci rende così vulnerabili ai fallimenti e alle perdite. Ricercare questa connessione con il resto del mondo funziona un po' come antidoto contro quel senso di vuoto che accompagna le forme più radicali di individualismo.

Nulla da difendere

Questo articolo non l'ho scritto per concludere che si stava meglio quando si stava peggio, o che questa società moderna ci rende tutti egoisti, dobbiamo diventare più buoni.

Siamo figli dei nostri tempi. La nostra epoca è così, nel bene e nel male. Siamo molto liberi, ma soli. Abbiamo molte possibilità e su di noi pesa la responsabilità delle scelte. Soprattutto le aspettative su come dovrebbe essere una vita degna di essere vissuta sono alte e non sempre raggiungibili.

Occuparci un po' delle altre persone - al di fuori della cerchia della famiglia e degli amici più stretti - può essere a tutti gli effetti un toccasana contro le derive più dannose dell'isolamento e dell'individualismo.

Ci aiuta a ricordare che ogni tanto possiamo lasciare un po' andare le esigenze di questo ego così prepotente che si crede tanto importante. Gli attentati contro l'immagine che abbiano di noi stessi possiamo spostarli dalla categoria catastrofi assolute a quella piccoli contrattempi senza importanza.

Un po' come la ragazza del racconto di Leo Babauta che a un certo punto si rende conto che non c'è alcuna gemma da difendere.

Tempo fa sono stata in un centro di buddhismo tibetano Mahayana per seguire un insegnamento centrato sulla compassione. Alla fine della giornata ci sono state delle domande e una persona ha preso la parola dicendo più o meno questo: molto bello, molto interessante, però io prima di pensare a essere compassionevole e gentile con le altre persone avrei bisogno di capire come posso riuscire ad amare me stesso.

Il monaco gli ha dato una risposta un po' spiazzante. In sintesi ha detto che noi in occidente sembriamo in effetti molto interessati a noi stessi, molto impegnati a cercare la nostra felicità. Però sembra che non lo facciamo nel modo giusto. Ci sentiamo separati dagli altri e non ci rendiamo conto di quanto in realtà siamo interdipendenti. E l'ha invitato a fare pratica di compassione.

Certo non è che domani ci svegliamo e diventiamo tutti dei monaci buddhisti, disinteressati al nostro sé, ai nostri successi e fallimenti personali. Non avrebbe senso e nemmeno sarebbe auspicabile, credo.
Però ecco, quando siamo lì lì per annegare nelle paludi dell'insoddisfazione e dell'ansia perché la nostra vita non è all'altezza delle inarrivabili aspettative di successo, conferma sociale e autorealizzazione... io un tentativo di spostare l'attenzione altrove lo farei.

Il quadro che ho usato per illustrare l'articolo è di Marica, una lettrice del blog.