Se hai un dolore di cui non riesci a liberarti, o una gioia che non riesci a contenere, fanne un'offerta creativa
È da due settimane che rimando questo articolo. Ho comprato il libro di Susan Cain Il dono della malinconia appena è uscita l'edizione italiana, e ho impiegato un mese per leggerlo. Non perché sia un libro esageratamente lungo, né perché l'abbia trovato noioso o faticoso; al contrario, ho provato il desiderio di assaporarlo, di leggerne un pezzetto alla volta.
Il suo primo libro, uscito ormai una decina di anni fa, è diventato una specie di manifesto per chi si riconosce nelle caratteristiche dell'introversione. Quiet, il potere degli introversi in un mondo che non sa smettere di parlare, non è solo un libro che insegna agli introversi a capirsi, ma è anche una critica, articolata e ben supportata, all'idea che l'estroversione sia sempre da considerarsi un pregio (e l'introversione un difetto). Le persone introverse infatti tendono ad avere delle qualità - come la riflessività, la prudenza, l'attenzione, la precisione - che sarebbero di grande aiuto nei contesti lavorativi e alla società in genere, ma che vengono valorizzate poco, mentre si tendono a preferire la socievolezza, la sicurezza di sé, l'ottimismo.
In questo suo nuovo libro affronta un altro caposaldo della cultura dominante americana, quello della positività, in prima battuta per affermare che sentirsi tristi è ok, fa parte della vita. Se il nostro temperamento è incline alla nostalgia, alla tristezza, alla dolceamarezza (come viene chiamata nel libro) non dovremmo sentirci obbligati ad apparire per forza come persone positive, solari e allegre.
Ci sentiamo, credo, un po' tutti sospinti verso un unico tipo umano, quello sempre sul pezzo, pronto a dare battaglia. Dritti verso la nostra meta, tosti, ottimisti, assertivi, abili nei rapporti interpersonali. Tutta questa pressione ci porta in certe situazioni a censurare una parte dei nostri sentimenti. La tristezza, la malinconia, e tutte le mille sfumature dei sentimenti considerati negativi fanno parte dell'esperienza umana, eppure non siamo mai incoraggiati a esprimere questa parte della nostra vita emotiva. Riecheggia di continuo quell'esortazione che abbiamo sentito dai nostri genitori: non piangere!
Non necessariamente sbagliata, anzi, da bambini abbiamo bisogno di imparare che non è con il pianto che si affrontano i problemi. Però forse abbiamo bisogno anche di sentirci dire che il nostro dolore è legittimo così come lo sono le lacrime che usiamo per esprimerlo (e per lenirlo). E questo però ce lo insegnano più di rado.
La spina dorsale del libro riguarda la convinzione dell'autrice che il dolore possa essere trasformato attraverso la creatività. Non è una idea nuova ovviamente, ma lei lo tratta con uno sguardo ampio, con una carrellata di personaggi, situazioni, e riflessioni sempre un po' sul filo.
Nel capitolo dedicato al lutto affronta in modo critico l'idea di accettazione che deriva dal buddismo, e che spesso, nella sua versione contemporanea e occidentale, ci viene spacciata un po' come se fosse la panacea di tutti i mali. Ma esistono perdite e dolori che non si possono accettare mai. Anche se facciamo del nostro meglio per confrontarci con l'incertezza, la caducità, l'impermanenza, la precarietà delle nostre vite, questo non significa che siamo in grado di accettarlo, né che accettarlo eventualmente ci faccia smettere di soffrire.
Cain cita un poeta giapponese dell'ottocento, Kobayaiashi Issa, uno dei maestri dell'haiku, che ha avuto una vita dura, costellata da lutti, tra cui la perdita di una figlia ancora piccola a causa del morbillo. Una delle sue poesie recita così:
È vero
che questo mondo di rugiada
è un mondo di rugiada
Eppure, eppure...
Ecco cosa scrive Susan Cain al riguardo.
È una poesia singolare: così delicata nel tono che la forza della protesta che contiene si nota appena. Il tema sembra essere l'idea essenzialmente buddista che la nostra vita è fuggevole come la rugiada. (...) La difficoltà ad accettare la transitorietà è forse il cuore stesso della sofferenza umana. Ecco perché molti dei grandi contemplativi ricordano costantemente a se stessi che un giorno dovranno morire (...) Ma c'è una grande differenza tra consapevolezza e accettazione. E infatti il cuore di questo haiku non è l'immagine di un "mondo di rugiada" ma piuttosto il breve verso finale "eppure, eppure".
Eppure, dice Issa, io piangerò mia figlia per sempre. Eppure io non tornerò mai a essere intero. Eppure io non accetto, lo dico in un sussurro ma sappiate che io non accetto la regola brutale che governa la vita e la morte su questo pianeta meraviglioso. Eppure, eppure, eppure...
Durante questa lettura ho ritrovato diversi dei temi a me cari. Cain parla del lavoro della psicologa Susan David, che ha elaborato l'idea di agilità emotiva, cioè la capacità di lasciare andare il flusso delle nostre emozioni esattamente così come è, senza pretendere di controllarlo, ma anche senza permettere che ci controlli.
Cita James Pennebaker e gli studi sulla scrittura espressiva, anche lei convinta - e lo scrive in più punti - che scrivere di sé sia uno dei più importanti e utili strumenti di auto-indagine e di trasformazione che abbiamo a disposizione.
Fa riferimento anche alla psicologia positiva, quel filone di riflessioni e di ricerche fondato da Martin Seligman che parte dall'assunto che la psicologia dovrebbe occuparsi non solo dei problemi della psiche, ma anche del suo opposto, indagando le potenzialità della mente, il suo funzionamento ottimale. Gli studi sulla gratitudine, sui talenti, sulla felicità, sul flow, si sono sviluppati all'interno di questa corrente.
Scrive Cain che alla psicologia positiva è stato rimproverato di avere ignorato una parte importante dell'esperienza umana, quella appunto della tristezza e della malinconia. Nel cercare di mettere a fuoco quali sono gli elementi che contribuiscono a condurre una vita piena, significativa, in ultima istanza felice, hanno trascurato di prendere in considerazione i sentimenti dolceamari, che pure fanno parte sempre della nostra esperienza. Ultimamente però parte della nuova generazione di psicologi positivi ha cominciato a riconoscere come il benessere implichi un sottile gioco dialettico tra fenomeni positivi e negativi.
Se riuscissimo a rispettare un po' di più la tristezza - scrive Susan Cain - forse saremmo anche in grado di vederla, invece di liquidarla con sorrisi forzati e di disprezzo, e di scorgere in essa il ponte di cui abbiamo bisogno per connetterci gli uni con gli altri.
La compassione per esempio, viene collocata nel versante positivo delle emozioni umane. Eppure la compassione implica la capacità di vedere e accogliere la sofferenza di altri, o anche alla nostra quando cerchiamo di sviluppare un atteggiamento compassionevole verso le nostre stesse difficoltà.
Sono diversi i temi toccati lungo tutto il libro: l'atteggiamento malinconico, la creatività, il lutto e la perdita, l'ossessione per la positività, il bisogno d'amore e la sua mancanza. A tratti diventa quasi un memoir, nel lungo racconto del rapporto (tormentato) che l'autrice ha con la madre, e, più indietro nel tempo, con la sua famiglia di origine, che è ebrea e ha affrontato l'Olocausto. In ogni capitolo vengono raccontati personaggi diversi, persone dolceamare che portano pesi sulle spalle e che, a un certo punto delle loro vite, hanno preso quei pesi e li hanno trasformati creativamente. Molti sono diventati dei guaritori feriti, cioè persone che curano negli altri le ferite che loro stessi hanno ricevuto.
Alla fine, se dovessi dire di cosa parla veramente questo libro, è esattamente questo: cosa fare con la nostra malinconia, con la nostra tristezza, con il nostro dolore? Sono lì, ci abitano, vuoi per indole, vuoi a causa di quello che ci è capitato nella vita; lasciamo che siano solo un peso? Oppure, visto che non ce ne possiamo liberare, possiamo farne una forza, trasformarli e rimetterli in circolo?
Lo lascio dire a lei che lo fa meglio di me.
Se avete un temperamento dolceamaro, o se lo avete sviluppato attraverso le esperienze di vita, vi siete chiesti come fare tesoro della vostra malinconia? Vi siete resi conto di far parte di una lunga tradizione di trasformazione del dolore in bellezza, della nostalgia in appartenenza?
Se amate particolarmente un artista, un musicista, un atleta, un leader spirituale, un imprenditore, vi siete mai chiesti perché? Cosa rappresenta per voi? Vi siete chiesti di quale dolore proprio non riuscite a liberarvi? E se potete farne un'offerta creativa? Se potete farne un modo per aiutare gli altri che soffrono di un dolore simile? Il vostro dolore non potrebbe essere, come suggerito da Leonard Cohen, un modo per abbracciare il sole e la luna?
Avete imparato lezioni che solo il vostro dolore e la vostra nostalgia possono darvi?