Che rapporto abbiamo con il nostro corpo?

Da certi punti di vista ci facciamo molta attenzione.
Lo teniamo pulito e profumato, ammorbidiamo la pelle con creme e olii, lo avvolgiamo in abiti morbidi ed eleganti. Facciamo ginnastica per tenerlo magro e tonico.

Da altri punti di vista invece lo consideriamo poco, come fosse un accessorio al servizio della mente. Non ci piace farci fermare dalle sue esigenze. Se c'è un raffreddore, un mal di testa, un bruciore di stomaco, corriamo a prendere una antidolorifico e via. Del tempo per prenderci cura dei piccoli malesseri non ne abbiamo.

Il rapporto con il corpo: un corpo dipinto

Lo vogliamo bello per poterlo esibire allo sguardo degli altri. Lo vogliamo in salute perché non intralci i programmi della nostra mente.

Ma in tutto questo riusciamo a essere davvero in contatto con quello che succede al nostro corpo?

Ascoltare il corpo. Cosa vuol dire?

Di sicuro avrai sentito dire che dobbiamo imparare ad ascoltare il corpo. È un'idea affascinante perché implica che il nostro corpo abbia una sua intelligenza e che sia in grado di comunicarci di cosa ha bisogno.

Molti pensano che sia proprio così e io non ho motivi per non crederci.
Ma se si passa dalla teoria alla pratica subito emergono i problemi.

Come si fa ad ascoltarlo?
Cosa ci sta dicendo?
Quali segnali vengono davvero dal corpo e quali no?

Quante volte ci sembra di avere sonno, ma è solo perché abbiamo trascorso una giornata troppo sedentaria e in verità non abbiamo bisogno di dormire ma di andare a fare una passeggiata.

Quando abbiamo fame, ma non è veramente fame: è che abbiamo la pessima abitudine di compensare i momenti no con il cibo.

E quando ci stiamo allenando? Con i muscoli doloranti e il fiatone, come facciamo a capire quando si tratta di una fatica sana, o quando al contrario ci siamo avvicinati pericolosamente la nostro limite ed è meglio fermarsi?

Non so tu, ma io non sono capace di distinguere sempre con chiarezza cosa sta dicendo davvero il mio corpo.

Il motivo di tutte queste difficoltà probabilmente risiede nel fatto che non fa parte della nostra cultura dare credito al corpo. E nessuno ci insegna come farlo.

Alan Watts, il filosofo inglese tra i primi a diffondere le filosofie orientali nella cultura occidentale, nel suo libro La saggezza del dubbio. Messaggio per l'età dell'angoscia, ha dedicato un capitolo proprio a questo tema del corpo.

La nostra cultura - dice Alan Watts - è terribilmente cerebrale. Abbiamo riposto tutta la nostra fiducia nelle capacità della mente e del pensiero astratto, mentre abbiamo trascurato di sviluppare le capacità istintive del corpo.

Il nostro corpo sa fare cose meravigliose: respira, fa circolare il sangue, combatte le malattie. E non è di certo l'intelletto ad avere insegnato al corpo come si fa.

Abbiamo permesso al pensiero cerebrale di svilupparsi e di dominare la nostra vita in misura sproporzionata rispetto al "sapere istintivo" che lasciamo cadere nell'atrofia. Il risultato è che siamo in guerra con noi stessi: la mente desidera cose che il corpo non vuole, e il corpo desidera cose che la mente non permette; la mente impartisce istruzioni che il corpo non segue e il corpo emette impulsi che la mente non riesce a capire.

Ecco spiegato perché ascoltare il corpo è più facile a dirsi che a farsi. Abbiamo costruito un muro tra mente e corpo e non sappiamo più come fare per abbatterlo.

Scienza, ascolto del corpo e resilienza

Psicologi e neuroscienziati utilizzano un parolone - interocezione - per indicare la consapevolezza delle funzioni interne del corpo.

Il nostro cervello riceve di continuo informazioni dai nostri organi vitali. Per esempio teniamo sotto controllo la velocità del respiro e i livelli di ossigeno (se ci manca l'ossigeno il cervello ci avvisa con la sensazione del soffocamento). In oggi momento percepiamo la nostra pelle: sensazioni di caldo o di freddo, eventuali pressioni, sensazioni tattili. Riceviamo anche informazioni dallo stomaco e dall'intestino. Ci accorgiamo se il ritmo cardiaco aumenta.

All'università della California, l'equipe di Lori Haase - ricercatrice e docente di psichiatria - da anni sta conducendo studi per cercare di capire che rapporto c'è tra resilienza e interocezione.

Detta così può sembrare un'idea strana, ma bisogna seguire il ragionamento.

La reazione allo stress si manifesta nel corpo. Davanti a un pericolo o a una sfida nel nostro corpo si scatenano molte reazioni: il cuore batte più forte, i polmoni prendono più aria e nel sangue circola molta adrenalina e altre sostanze che ci rendono molto svegli, reattivi, pronti a dare il meglio di noi... che si tratti di rispondere alle domande del professore all'esame o di correre i 100 metri per la medaglia olimpica.

Questo sistema di risposta allo stress, mette tutto il nostro corpo in uno stato di estrema allerta e ci consente di migliorare al massimo le nostre prestazioni.

Dovrebbe però disattivarsi una volta superata la situazione. Se questo non accade - e restiamo a lungo in questa condizione di iper-eccitazione - le cose cominciano a funzionare molto male: siamo preda del malessere da stress e tra l'altro le nostre prestazioni fisiche e intellettuali peggiorano.

Ed è qui che entra in gioco la resilienza.

In psicologia la resilienza è la capacità di tornare in una condizione emotiva e fisica normale dopo un evento stressante.

È evidente che si tratta di una qualità psicologica molto importante, da cui dipende la nostra capacità di rialzarci in piedi ogni volta che la vita ci mette al tappeto.

Gli scienziati sanno che esistono persone più resilienti, e altre che lo sono meno, ma ancora non hanno capito di preciso da cosa dipende questa differenza.

Lori Haase e il suo gruppo di ricercatori hanno pensato che possa esserci un legame tra la capacità di ascolto del proprio corpo e la resilienza. Forse - hanno ipotizzato - le persone che sono più in contatto con quello che succede realmente al loro corpo, sono anche le più capaci di attivare le risposte più appropriate.

Per verificare questa teoria hanno studiato un gruppo di persone con diversi livelli di resilienza. Per prima cosa hanno fatto loro compilare un questionario standard e in base ai risultati del questionario hanno diviso le persone in tre gruppi a seconda del livello di resilienza: alto, medio, basso.

Queste persone sono state messe in una condizione di stress mentre il loro cervello veniva monitorato dalla risonanza magnetica.
Per creare la condizione di stress hanno messo ai volontari delle maschere che potevano essere manovrate dall'esterno in modo da rendere progressivamente difficile respirare. E la difficoltà a respirare è una delle esperienze più stressanti che si possano sperimentare.

I risultati sono davvero interessanti.

I ricercatori hanno controllato l'attivazione di quella parte del cervello che riceve ed elabora i segnali dal corpo.
Si sono accorti che le persone del gruppo alta resilienza erano fortemente sintonizzate nell'ascolto dei segnali del corpo; percepivano immediatamente l'inizio delle difficoltà respiratorie, ma la risposta del loro cervello era smorzata: non andavano in panico.

Le persone del gruppo bassa resilienza avevano la reazione opposta. Non erano particolarmente attenti ai segnali del loro corpo, ma nel momento in cui la maschera rendeva loro difficile respirare, mostravano una reazione di stress molto forte. Di fatto pur essendo a conoscenza della minaccia non erano particolarmente attenti ai segnali del corpo, e quando la minaccia si manifestava (la maschera si chiudeva) andavano nel panico.

Da questo studio emerge che sapere ascoltare il proprio corpo è fondamentale per potere sviluppare una buona resilienza. Quando siamo poco in contatto con il nostro corpo quello che ci accade ci prende un po' alla sprovvista, e ci porta ad avere reazioni di ansia e di paura più forti. Se invece il canale di comunicazione tra mente e corpo funziona bene siamo anche maggiormente in grado di rassicurarci e di reagire nel modo più appropriato senza andare nel panico.

Probabilmente gli studi condotti dall'equipe di Lori Haase sono ancora pochi per potere prendere queste conclusioni come oro colato. Però possiamo dire che siamo davanti alla prima prova scientifica del fatto che sapere ascoltare i segnali del corpo ci aiuta a essere più resilienti e a organizzare meglio la nostra risposta allo stress.

Il corpo delle persone troppo sensibili

Tempo fa ho letto il famoso libro di Rolf Sellin Le persone sensibili hanno una marcia in più.

Sellin è un ingegnere, che poi si è formato come consulente psicoterapeuta e coach sistemico. Ha approfondito il tema delle persone ipersensibili attraverso la sua stessa esperienza e quella dei suoi pazienti.

Secondo Sellin - che riprende gli studi della psicologa Elain Aron - alcune persone fin dalla nascita tendono a percepire più stimoli e in modo più intenso rispetto alla media delle altre persone. Si trovano quindi a essere facilmente sopraffatti da ciò che li circonda. Percepiscono infatti in modo particolarmente acuto la bellezza, l'arte, la natura, ma anche la sofferenza, le ingiustizie, il dolore del mondo.

C'è un'espressione molto significativa che lo scrittore inglese Eric Malpass ha utilizzato per descrivere il protagonista del suo romanzo The Long Long Dances

Aveva attraversato la vita con uno strato di pelle in meno rispetto agli altri

Sono sicura che se ci pensi ti verrà in mente qualcuno che conosci che corrisponde a questa descrizione, o forse ti ci ritrovi tu stesso.

I bambini con questo tipo di sensibilità percepiscono con grande chiarezza cosa gli adulti si aspettano da loro e sentono una fortissima pressione ad accontentare genitori e insegnanti perché non tollerano i segnali di disapprovazione.

Secondo Rolf Sellin la prima modalità che utilizza un bambino per difendersi da questo eccesso di percezioni e di pressioni è smettere di ascoltare il proprio corpo.

Nel momento in cui nel corpo si manifestano emozioni troppo forti (tra l'altro giudicate sproporzionate dagli adulti) il bambino impara che quello che gli dice il corpo non va bene, e cerca di non ascoltarlo più.

A partire da questo distacco dal proprio corpo la persona ipersensibile tende sempre più a perdere se stessa. Dopo avere rinunciato al corpo rinuncia alle proprie opinioni e alle proprie esigenze in nome di questo bisogno estremo di adattamento alle aspettative degli altri e dell'ambiente.

Alla perdita della percezione corporea è collegata anche quella della propria persona in quanto centro. Ciò equivale più o meno a dire che non siamo più in noi: viviamo noi stessi e il mondo che ci circonda non più dal nostro personale punto di vista. Ci si ritrova "fuori di sé" e si perde la propria visione della realtà. A quel punto non si può che percepire se stessi dalla posizione dell'altro. Questo porta anche a valutare la propria persona in base a criteri altrui, differenti dai nostri, sui quali cerchiamo di orientarci: una lotta per guadagnarci la stima altrui che ovviamente siamo destinati a non vincere mai.

Secondo Sellin quindi il punto per una persona troppo sensibile è cercare di ritrovare il proprio centro, e la chiave passa attraverso il recupero del rapporto con il proprio corpo.

Se a un certo punto ci accorgiamo di sentire il corpo solo quando ci fa male, probabilmente abbiamo perso la percezione del corpo come fonte di vitalità, gioia e come sensore di benessere e di piacere. Forse è il caso di provare a recuperarla.

Voglio essere sincera: il libro di Rolf Sellin mi ha convinta solo a metà. L'ho trovato un po' ripetitivo e poco documentato da punto di vista scientifico. Però è ricco di intuizioni interessanti e questa sul rapporto con il corpo e con la nostra fisicità mi pare particolarmente azzeccata.

Tornare nella carne

Ma nella pratica c'è qualcosa che possiamo fare per imparare ad ascoltare meglio il nostro corpo?

Direi di sì.

Intanto con la meditazione del respiro. Lo dice lo stesso Jon Kabat-Zinn:

Quando porti l'attenzione alla pancia e al suo sollevarsi con il respiro o al passaggio dell'aria che entra e che esce dalle narici, ti sintonizzi con le sensazioni del tuo corpo in rapporto con la vita stessa. Di solito queste sensazioni le escludiamo dal campo dell'attenzione perché sono tanto familiari da svanire in uno sfondo indifferenziato. Riportandole alla consapevolezza di riappropri della tua vita e del tuo corpo, rendendoti letteralmente più reale e più vivo.


Persone che fanno yoga in spiaggia


Poi - sempre restando in ambito mindfulness - c'è la tecnica del body scan (l'esplorazione del corpo). Si esegue da sdraiati, e consiste nel passare in rassegna tutte le parti del nostro corpo ascoltandone tutte le più piccole sensazioni: tensioni, formicolio, temperatura, pressioni.
Per imparare il body scan puoi farti aiutare da una guida audio. In rete ne trovi tantissime (trovi alcuni link alla fine dell'eBook gratuito Mindfulness per tutti che puoi scaricare liberamente).

Altra pratica direi fondamentale è lo yoga (anche questa infatti fa parte delle pratiche di mindfulness proposte da Jon Kabat-Zinn). Per quella che è la mia esperienza, è la pratica migliore di tutte per calarsi nel corpo, essere presenti a se stessi e centrati.
Da diversi anni lo yoga è di gran moda e non c'è palestra che non offra almeno un corso. Se mi posso permettere un consiglio però, io cercherei di scegliere un centro dedicato alla pratica dello yoga e insegnanti con una solida formazione. Lo yoga è silenzio, ascolto, e progressivo avvicinamento al proprio corpo. Un bravo insegnante capisce le particolarità di ogni allievo e ti insegna a eseguire ogni posizione nel modo più corretto possibile nel pieno rispetto delle particolarità della tua conformazione fisica. I corsi più improvvisati - magari in una palestra dove nella stanza a fianco si balla la zumba - potrebbero non offrire lo stesso livello di quiete e di attenzione.

Infine - quando le nostre condizioni fisiche lo consentono - mi sembra ottimo praticare anche qualche attività centrata sul movimento, magari da eseguire all'aria aperta. Personalmente io ho provato la camminata veloce, la corsa, il nuoto, ma credo che tutte le attività sportive, la danza, i giochi di squadra, siano utili per conoscere il nostro corpo, le sue capacità e i suoi limiti.

Tutto questo vale soprattutto per le persone un po' troppo cerebrali... per esempio quelle che passano ore e ore al computer a scrivere articoli lunghissimi ;)
Quindi i patti sono che appena finito questo articolo, esco per una bella camminata veloce al parco!