Credere in se stessi viene considerata quasi una formula magica e ci viene propinata ovunque. Pare sia in grado di fare accadere miracoli: se ci credi - ma devi crederci davvero - nessun risultato sarà impossibile da raggiungere; e se fallisci... be', è perché non ci hai creduto abbastanza.

Le cose sono come al solito più complicate di come vengono presentate dagli slogan e dalle formulette. Qualcuno sembra pensare che avere fiducia in sé sia una specie di amuleto che tiene la nostra vita al riparo dai fallimenti e dagli errori. Io non credo che sia così.

Avere fiducia in se stessi è un sentire a cui partecipano diverse componenti: l'autostima, il senso di auto-efficacia, l'immagine complessiva che abbiamo di noi. La fiducia inoltre è legata a doppio filo con l'azione: avere fiducia ci spinge ad agire, e allo stesso tempo sono i risultati delle nostre azioni a nutrire la fiducia.

La fiducia che riusciamo a riporre in noi stessi dipende anche dallo sguardo degli altri. A volte ci sentiamo dire che il giudizio che abbiamo di noi non deve dipendere da come ci vedono gli altri. E questo è vero senza dubbio. Ma è una verità parziale. Intanto perché secondo la psicologia cominciamo a costruire le nostre sicurezze quando siamo piccoli e molto dipende dal tipo di amore che riceviamo dai nostri genitori. E poi perché, in ogni caso, le esperienze della vita, in un modo o nell'altro, ci segnano: quando andiamo incontro a rifiuti, fallimenti, perdite, è normale che la sicurezza che abbiamo in noi stessi possa vacillare.

Ma è vero anche che più siamo insicuri, più è facile andare incontro a rifiuti e fallimenti. Possiamo avere anche buone capacità, ma se ci manca del tutto la fiducia nei nostri mezzi le nostre azioni saranno facilmente inefficaci. Se dubitiamo di noi stessi diventiamo titubanti, i compiti difficili ci spaventano e li evitiamo, cominciamo a procrastinare, facciamo fatica a motivarci e rinunciamo davanti ai primi ostacoli.

Insomma è un po' il classico gatto che si mangia la coda, o circolo vizioso per dirla in modo più elegante.

Di chi è il merito?

I libro E se poi mi scoprono? di Elisabeth Cadoche e Anne De Mortalot, rispettivamente una giornalista e una psicoterapeuta, che ho letto di recente, è dedicato a una particolare forma di sfiducia in sé, quella che chiamano sindrome dell'impostore.

Mi è sembrato interessante il modo in cui l'hanno definita: in base all'attribuzione.

Se quando riesci in qualcosa tendi a sminuire quello che hai ottenuto e a dire che, in fondo, non è merito tuo (attribuzione esterna), e quando invece commetti un errore, o le cose vanno un po' storte, tendi a sentirtene responsabile (attribuzione interna), allora ecco la sindrome dell'impostore all'opera. Un modo di pensare secondo cui se va bene è solo fortuna, ma se va male deve essere per forza colpa nostra.

È un modo di sentirsi che non lascia scampo. Una mancanza di fiducia nel proprio valore così radicale che nemmeno la realtà dei fatti riesce a scalfirla: anche se ti impegni e raggiungi i tuoi obiettivi, o non si tratta di obiettivi così importanti, o li hai ottenuti non per merito tuo.

È stato solo un colpo di fortuna

Ero al posto giusto al momento giusto

Non sono io a essere brava/o, sono gli altri che sono scarsi

Non è poi tutto questo granché

Avrebbe potuto riuscirci chiunque

Non è merito mio, mi hanno aiutato

Se ti capita spesso di pensare, o di dire, questo tipo di cose, probabilmente è la sindrome dell'impostore che parla per te.

A ben pensarci però è facile vedere come le cose riuscite bene sono spesso una combinazione di merito personale, fortuna, incontri favorevoli. Quello dell'attribuzione alla fine è un falso problema. A fare male sono i vissuti di vergogna e inadeguatezza. Io posso pure pensare di avere avuto molta fortuna nella vita e godermela lo stesso. Se al contrario coltivo nel profondo la sensazione di non valere molto e di non essere una persona meritevole, allora mi sentirò a disagio.

Per come la vedo io, sentirsi o meno meritevoli non ha necessariamente a che vedere con l'idea di avere le giuste qualità e capacità. È qualcosa di più profondo che riguarda il nostro stesso diritto di essere al mondo e di occupare un posto (qualunque esso sia).  

Quindi non credo che il punto sia stabilire se quando otteniamo un successo sia stato per merito nostro, di altri o per puro caso. È facile che si sia trattato di una combinazione di questi fattori, perché è così che va la vita in gran parte dei casi.

Il punto vero della sindrome dell'impostore è il senso di disagio e di vergogna, a volte inafferrabile, che ti fa sentire sempre e comunque immeritevole... di qualsiasi cosa. Certo, se il posto che occupi è considerato importante e i doni che la vita ti ha regalato sono abbondanti allora il senso di impostura (per chi tende a sentirsi così) può diventare ancora più forte, ma non è necessario essere ricchi, famosi e baciati dalla fortuna per provarlo.

Uomini e donne, noi e gli altri

L'espressione "sindrome dell'impostore" è stata coniata alla fine degli anni Settanta da due psicologhe: Pauline Clance e Suzanne Imes, che studiarono questo tipo di sensazioni e pensieri in diversi gruppi di persone. Una cosa che emerse dai loro studi è che le donne tendono ad avere questa sensazione di impostura più degli uomini, e che in generale il problema si presenta più spesso nelle minoranze e nei gruppi sociali svantaggiati. Questo dimostra che la fiducia in se stessi e la percezione del proprio valore viene influenzata anche da aspetti sociali, e non solo psicologici e individuali, cosa questa che viene troppo spesso sottovalutata.

In generale tutte le forme di disagio che riguardano la sfera mentale - da quelle lievi come può essere una sensazione di impostura a quelle più serie che si configurano come veri e propri disturbi - tendono a essere considerate come problemi individuali senza indagare a fondo il ruolo che giocano la società e la cultura dominante.  

Anche se le donne tendono più spesso a sentirsi insicure del loro valore, questo non significa che gli uomini ne siano immuni, anzi. Viene spesso citato a questo proposto Albert Einstein che pare abbia confidato a un amico di sentirsi un imbroglione involontario per la grande considerazione di cui godeva. L'attore Michael J. Fox, nella sua biografia, ha scritto di essersi spesso sentito un impostore durante gli anni più luminosi della sua carriera di attore.

Tra le donne, Maya Angelou, poetessa e scrittrice, considerata tra le più influenti intellettuali afroamericane di sempre, ha detto:

Ho scritto undici libri, ma ogni volta penso "Uh oh, stanno per scoprirmi. Li ho imbrogliati tutti, e stavolta stanno per scoprirmi"

Non sono solo le persone che hanno raggiunto grandi risultati a nutrire dubbi di questo genere. Anche persone comuni, con mestieri meno straordinari, possono cadere in una spirale di incertezza riguardo il ruolo che occupano o i risultati che hanno raggiunto e sentirsi un po' impostori.

A volte questa sensazione deriva da quella che è stata chiamata ignoranza pluralistica: noi conosciamo i nostri pensieri e le nostre emozioni. Se ci ritroviamo a nutrire dubbi sulle nostre capacità di solito lo facciamo in silenzio. Non siamo abituati a condividere con gli altri questo tipo di pensieri. Il risultato è che, se nessuno apre bocca, continuiamo a credere di essere gli unici ad avere questo genere di insicurezza. Gli altri ci sembrano tranquilli, motivati, sicuri di sé, ma noi non sappiamo davvero come si sentono dentro, e quindi si verifica un bias: ci convinciamo di essere più insicuri degli altri, ma in verità non sappiamo affatto cosa passa per la testa delle persone che abbiamo attorno, sul posto di lavoro e altrove.

Per questo in certe circostanze un modo efficace di combattere il senso di inadeguatezza è... parlarne. Scopriremo così, con molta probabilità, che gli altri sono meno sicuri e spavaldi di come appaiono e che spesso condividono esattamente le nostre stesse insicurezze. Certamente però, per affrontare assieme ad altri questo tema, bisogna essere in cerca di un confronto sincero, parlarne solo per schernirsi o per andare a caccia di rassicurazioni non è utile e rischiamo di ottenere l'effetto opposto.

Tipologia dell'insicurezza

Cadoche e De Montarlot - ne libro E se poi mi scoprono? - riprendono il lavoro della psicologa Valerie Young e descrivono cinque diversi profili femminili con cui si può manifestare la sindrome dell'impostore.

La perfezionista

Il perfezionismo è probabilmente la modalità più comune con la quale si manifesta l'insicurezza: non sono sicura di sapere fare bene e quindi mi sforzo in modo maniacale di controllare e verificare tutto. Non mi posso accontentare, per essere all'altezza ogni cosa deve essere perfetta.

In realtà, dicono gli psicologi, il perfezionismo ha due facce: c'è quello adattivo e quello disadattivo.

Il perfezionismo adattivo è il desiderio di soddisfare standard elevati che possono essere raggiunti con determinati sforzi. Il perfezionismo disadattivo è la tendenza a porsi richieste eccessive e irraggiungibili, atteggiamento che genera ansia e stress

La risposta al perfezionismo, per come la vedo io, non è quella di mettersi a fare le cose in modo sciatto e superficiale (c'è già fin troppa gente là fuori che si comporta così), ma sforzarsi di vedere con chiarezza il confine tra l'atteggiamento adattivo e quello disadattivo. Non c'è nulla di male nell'avere standard elevati, anzi, l'importante è che questo non diventi fonte di ansia o di paralisi.

L'esperta

Un altro modo per reagire alla paura di non essere abbastanza competenti è quello di cercare di sapere tutto. Se la perfezionista ricerca l'estrema qualità in tutto quello che fa, l'esperta ha fame di conoscenza. Diventa così un'eterna studentessa perché si convince in ogni momento di non saperne mai abbastanza.

Anche qui, come per il perfezionismo, non c'è nulla di sbagliato nel cercare di apprendere cose nuove e aggiornare la nostre competenze, anzi, è molto peggio sedersi sulle proprie conoscenze e credere di non avere più niente da imparare. Però pensare sempre di non saperne abbastanza può interferire negativamente nelle nostre attività. Se nutriamo questa ansia di preparazione possiamo non trovare il coraggio di presentarci come esperte di temi che in realtà conosciamo bene. Oppure, vogliamo partire con un progetto nuovo ma ci sembra di non saperne abbastanza e ci imbarchiamo in un'opera monumentale di studio e documentazione che ci fa procrastinare all'infinto il momento di cominciare a mettere le mani in pasta.

Anche qui, come nel caso del perfezionismo, si tratta di trovare un punto di equilibrio.

L'individualista

L'individualista per potersi sentire competente ha bisogno di portare a termine i suoi compiti da sola. Non permette a nessuno di aiutarla perché crede che chiedere supporto sia la prova della sua debolezza.

È convinta che il modo giusto di procedere sia contare solo su se stessa, e così facendo si priva dell'opportunità di lavorare in squadra e di appoggiarsi alle competenze degli altri.

Il talento naturale

Appartengono a questo tipo, le persone che non solo vogliono raggiungere un obiettivo, ma credono che esista un modo giusto per farlo: con facilità, senza sforzo, a colpo sicuro. Se c'è da faticare, se si commettono errori e bisogna correggersi, se ci sono da imparare nuove competenze, si sentono sconfitte. Tutto deve riuscire loro facile, altrimenti significa che non valgono niente.

La superdonna

La superdonna infine è quella che sente il bisogno di eccellere in tutto. Per sentirsi a posto con se stessa non le basta riuscire nel suo lavoro, o in un qualsiasi altro ambito importante della vita, ma deve sentire di essere capace di ricoprire in modo brillante e ineccepibile qualsiasi ruolo: madre, professionista, moglie, casalinga, amica... Deve sentirsi brava in tutto per non sentirsi fallita.

Sezione consigli e rimedi

Questi sono temi sui quali esistono tonnellate di materiale, riflessioni e studi, ed esistono corsi, libri di auto-aiuto, strumenti, finalizzati a migliorare la fiducia in se stessi e l'autostima. A volte però questi percorsi nascondono delle insidie: non è mai chiaro se il lavoro su di sé è finalizzato a sentirsi meglio, o a ottenere qualcosa (successo, elevate performance).

C'è tutto un terreno ambiguo, in parte retaggio dei decenni passati, in parte molto contemporaneo, che confonde un po' i piani: l'essere e l'apparire, lo stare bene e l'ottenere risultati, la sicurezza e la performance.

Io personalmente davanti all'arroganza, alla presunzione di sapere tutto, a quelli che si muovono nel mondo come se fosse di loro esclusiva proprietà preferisco mille volte un po' di insicurezza, di timore, di riservatezza. Non credo che nutrire dubbi sulle nostre effettive capacità e conoscenze sia nocivo; lo è soffrire, vergognarsi di quel che si è, andare in ansia perché non ci si sente all'altezza. Mi sembrano due cose diverse.

Se la mancanza di sicurezza nei miei mezzi mi paralizza, non mi fa agire, mi fa soffrire, mi impedisce di esprimermi come vorrei, allora bisogna cercare di rimediare. Non credo però che la soluzione sia cercare qualche trucco o qualche pratica che ci consenta di sentirci sempre sicuri, performanti, pronti a spaccare (come dicono in tv); sarebbe una soluzione peggiore del male.

L'ignoranza genera fiducia più spesso della conoscenza

È una frase di Darwin. Meglio un po' sfiduciati ma aperti alla conoscenza, che pieni di false sicurezze indotte dall'ignoranza.

Mi piace allora pensare a una strada diversa per lenire le ferite di chi è affetto da insicurezza cronica, una strada che mantenga aperta la porta ai dubbi - e quindi alla curiosità, al desiderio di conoscere e di migliorare - ma che non si associ per forza a sofferenza, e sensazione di inadeguatezza. Si potrebbe parlare di rispetto di sé. Possiamo tenerci care le nostre insicurezze, coltivando comunque allo stesso tempo un profondo rispetto per noi stessi.

Come?

Ho preso spunto dal libro di Cadoche e De Montarlot per elencare alcune pratiche sane per imparare a darci valore e che non passano dal cercare di autoconvincersi di essere bravi, belli, meritevoli, competenti, sicuri di sé e scoppiare di autostima.

  • Circondarsi di persone che hanno un atteggiamento positivo verso di noi. Quante volte restiamo invischiati in amicizie e conoscenze con persone che ci criticano, ci scoraggiano, alimentano le nostre insicurezze. Non credo che dobbiamo frequentare solo persone che ci diano sempre ragione, ma persone che ci rispettino sì. Quelli ipercritici, che ci suggeriscono che dobbiamo cambiare per andare bene, o che ci manipolano per i loro comodi, possiamo pure lasciarceli alle spalle.
  • Prendere consapevolezza di quanto i social media ci influenzino e scegliere di conseguenza come usarli. Donne perfette, fisici scolpiti, vite da sogno, case splendenti... ci sono tante e tanti figuranti che fanno affari vendendo ideali di perfezione. Sicuri che ci faccia bene seguirli? Meglio cercare profili che ci ispirano davvero, che facciano contenuti utili, divertenti, intelligenti. Niente di male nel seguire contenuti frivoli, la moda, la bellezza... ma piccole dosi possono bastare, onde evitare che si insinui dentro di noi l'idea che certe immagini e certi stili di vita rappresentino la normalità. Allo stesso modo, rispettiamo noi stessi stando alla larga dalle risse verbali e da quei contenuti in cui si riversa solo odio e intolleranza.
  • Tenere sempre presente che gli altri, anche quelli che sembrano perfetti, sicuri, sul pezzo, hanno le loro fragilità e insicurezze. Usciamo dall'idea un po' infantile di essere gli unici ad avere paura, dubbi, fragilità. Fanno fatica anche gli altri, forse non come noi, forse non nelle stesse cose, ma non sono immuni. La differenza sta nel fatto che a volte le persone troppo insicure non riescono a prendersi la responsabilità di rischiare l'errore o il fallimento.
  • Abbandonare certe convinzioni errate. Per esempio la pretesa di potere piacere a tutti, di non commettere errori, di non ricevere critiche. Queste convinzioni sono zavorre che limitano il nostro spazio di manovra e ci fanno provare un sacco di dispiacere inutile.
  • Per correggere un po' la tendenza a vedere sempre il bicchiere mezzo vuoto, possiamo fare una semplice lista in cui elencare i risultati che abbiamo ottenuto, i momenti di soddisfazione, le cose che ci rendono orgogliosi. Teniamola a portata di mano, leggiamola nei momenti di sconforto, e teniamola aggiornata.

Nel 1960, quindi ormai più di 60 anni fa, la giornalista e scrittrice americana Joan Didion scrisse per la rivista Vogue un articolo intitolato Sul rispetto di sé nel quale lega tutta questa faccenda dell'autostima e della fiducia in se stessi alla responsabilità. Ne lascio qualche stralcio per concludere l'articolo, con una raccomandazione: se alla prima lettura il significato non è chiaro, fatene una seconda, e anche una terza. Non è una scrittura immediata, ma ne vale la pena.

C'è una superstizione diffusa che "il rispetto di sé" sia una specie di amuleto contro i serpenti, qualcosa che tiene quelli che lo possiedono in un Eden intatto, lontano da letti estranei, da conversazioni ambivalenti, e in generale dai guai. Non è affatto così. Il rispetto di sé non ha niente a che fare con la facciata delle cose, riguarda piuttosto una pace separata, una riconciliazione personale. (...)
Le persone con rispetto di sé hanno il coraggio dei propri errori. Conoscono il prezzo delle cose. Se scelgono di commettere adulterio, poi non corrono, in un accesso di cattiva coscienza, a chiedere l'assoluzione ai compagni traditi. (...)
Il carattere - la disponibilità ad accettare la responsabilità per la propria vita - è la fonte da cui sgorga il rispetto di sé. (...)
Assegnare il giusto peso alle lettere inevase, liberarci delle aspettative degli altri, restituirci a noi stessi: ecco dove risiede il grande, il singolare potere del rispetto di sé. Senza questo, finiamo per scoprire l'ultimo giro di vite: fuggiamo per trovare noi stessi, e non troviamo nessuno in casa.