Una piccola premessa. Io non amo particolarmente i libri che parlano di ansia. Più precisamente non amo quei libri che ti spiegano come superare i disturbi d'ansia. Se leggo un titolo che promette di risolvere ansia, depressione, attacchi di panico, non mi fido e non lo leggo. Nessun libro ti può spiegare come guarire da un disturbo d'ansia. Un libro ti può dare delle informazioni (utilissime) e può suggerirti nuovi modi per affrontare il tuo problema, ma in nessun libro troverai una soluzione chiavi in mano. E per questo provo irritazione nel vedere che continuano a essere pubblicati libri con titoli acchiappa lettori che fanno promesse che non possono essere mantenute.

Mi piacciono invece i libri con un taglio scientifico, perché dare un nome alle cose che provo mi rasserena. E poi mi piacciono le storie, i racconti in prima persona di chi ha affrontato - e forse risolto o forse no - problemi di ansia e dintorni. Mi piacciono perché le storie creano identificazione. Ci sentiamo meno soli davanti a una storia che assomiglia alla nostra, e nello stesso tempo diventiamo capaci di andare oltre il nostro punto di vista perché la storia dell'altro non è mai identica alla nostra.

In parte ci rispecchiamo e in parte sperimentiamo una nuova prospettiva, e questo ci può fare del bene.

Ho quindi messo assieme i quattro libri autobiografici più belli che ho letto (almeno finora) sul tema della salute mentale.

Eccoli.

Parla, mia paura - Simona Vinci

È cominciata con la paura. Paura delle automobili. Paura dei treni. Paura delle luci troppo forti. Dei luoghi troppo affollati, di quelli troppo vuoti, di quelli troppo chiusi e di quelli troppo aperti. Paura dei cinema, dei supermercati, delle poste, delle banche. Paura degli sconosciuti, paura dello sguardo degli altri, di ogni altro, paura del contatto fisico, delle telefonate. Paura di corde, lacci, cinture, scale, pozzi, coltelli. Paura di stare con gli altri e paura di restare da sola.

Parla, mia paura (Einaudi) è un libro breve ma denso. Ogni capitolo apre una finestra su un momento della vita dell'autrice, toccando via via tutti i nodi del suo malessere. Il rapporto con il corpo, la maternità, la stanza dell'analista e quella del chirurgo plastico, un lutto del passato, l'idea persistente del suicidio. E poi ci sono i libri e i film dai quali l'autrice trae citazioni, immagini, suggestioni, e conforto.

Ci sono momenti in cui la vita si chiude ed è come restare bloccati in una stanza con le pareti che si avvicinano sempre più. In altri momenti la vita si apre, e si scopre che anche in mezzo a tutto quel dolore esiste la possibilità di respirare, di fare delle scelte, di andare avanti.

Nel libro di Simona Vinci questo movimento si coglie molto bene. Non c'è la narrazione di un percorso ideale di guarigione, non ci sono consigli, non è un libro di aiuto. È una storia, narrata bene, con una scrittura coinvolgente e precisa. A tratti l'ho trovato addirittura un po' troppo personale e intimo, mentre ho trovato molto belle certe riflessioni nelle quali mi sono riconosciuta in pieno. Come questa per esempio.

L'unico potere che abbiamo è tentare di vivere al meglio il presente senza farci annientare dal terrore del futuro. L'unico potere che abbiamo è continuare a cercare lo sguardo degli sconosciuti senza vedere in loro dei nemici, ma sperando di trovare degli amici. L'unico potere che abbiamo è fidarci della nostra immaginazione e cercare di guidarla verso pensieri positivi, anche quando stiamo attraversando una selva oscura: il buio può parlare, e non è detto che le sue siano soltanto parole dolorose.

Qualcosa che l'autrice ha capito del suo male, e che io penso sia universale, valida per tutti ed estremamente preziosa, è questa: l'ansia ci porta naturalmente a chiuderci, a metterci in posizione di difesa. Invece quello che si può fare per contrastarla è il movimento opposto: aprire, proprio laddove la paura ci suggerisce di chiudere.

Ecco il trucco, la magia: non chiudere, apri. Non nasconderti, mostrati. Non tacere, esprimiti. Se hai paura, chiedi aiuto.

Il male oscuro - Giuseppe Berto

Penso che questa storia della mia lunga lotta col padre, che un tempo ritenevo insolita per non dire unica, non sia in fondo tanto straordinaria se come sembra può venire comodamente sistemata dentro schemi e teorie psicologiche già esistenti

Sulla copertina di questo libro c'è scritto Romanzo, ma in verità noi sappiamo che si tratta di una storia autobiografica.

Giuseppe Berto è stato un grande scrittore italiano, vissuto nel secolo scorso, che con questo libro, nel 1964, ha vinto due dei più prestigiosi premi letterari italiani.

Non è un libro contemporaneo e si sente, nella scrittura e nel contenuto. È scritto come un flusso di coscienza, con pagine e pagine senza nemmeno un punto. È facile all'inizio trovarsi disorientati in questo muro di testo continuo, ma poi, una volta preso il ritmo, ci si ritrova all'interno di una storia che piano piano, alternando passato e presente, ricostruisce una intera esistenza.

È la storia di un uomo che dopo la morte del padre comincia a soffrire di strane malattie e assurde fobie che nessun medico riesce a curare. Finché il protagonista non approda nello studio di un famoso psicoanalista che, se non riesce a guarirlo, quanto meno gli offre un quadro interpretativo di quello che stava accadendo.

Siamo, come si diceva, negli anni sessanta, e quindi il modello è quello della psicoanalisi freudiana che riconduce tutto al rapporto con i genitori. Ed è anche per questo che leggere Il male oscuro oggi è interessante. Perché i mali sono sempre quelli: dai dolori di stomaco agli attacchi di panico alle paure ingiustificate, ma la chiave interpretativa è diversa da quella che usiamo oggi che la psicoanalisi è considerata in gran parte superata. E questo mette le cose in prospettiva: chissà tra cinquant'anni cosa si penserà di quello che oggi crediamo di sapere...

In appendice, l'autore racconta qualcosa sulla genesi del suo libro, e troviamo di nuovo il tema della scrittura di sé come strumento di aiuto.

Era come se avessi scoperto il bandolo di un filo che mi usciva dall'ombelico: io tiravo e il filo veniva fuori, quasi ininterrottamente, e faceva un po' male, si capisce, ma anche a lasciarlo dentro faceva male. Ricordavo le parole del Prometeo incatenato che poi ho voluto mettere nel frontespizio del libro: il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore.

Ragioni per continuare a vivere - Matt Haig

Ricordo il giorno in cui la persona che ero allora morì.
Cominciò con un pensiero. C'era qualcosa che non andava. Quello fu l'inizio. Prima che mi rendessi conto di cos'era. Poi, un secondo dopo, sentii una strana sensazione nella testa. Un'attività biologica nella parte posteriore del cranio, poco sopra la nuca. Il cervelletto. Una pulsazione intensa o un frullio, come se ci fosse una farfalla intrappolata all'interno, oltre un formicolio. Non conoscevo ancora gli strani effetti fisiologici indotti dalla depressione e dall'ansia. Pensai solo che stavo per morire. E poi partì il cuore. E partii anche io. Sprofondai, velocemente, caddi in una nuova realtà claustrofobica e soffocante. E ci sarebbe voluto più di un anno prima di sentirmi di nuovo mezzo normale.

Nel racconto, Matt Haig è un giovane ragazzo inglese che sta trascorrendo un lungo periodo di studio in Spagna. Ha una ragazza di cui è innamorato (e che poi sposerà). Un paio di settimane prima del suo rientro a Londra, l'ansia e la depressione irrompono di colpo nella sua vita e mandano tutto all'aria.

Ragioni per continuare a vivere (Reasons to Stay Alive è il titolo originale) è stato pubblicato nel 2015 ed è stato poi tradotto in italiano dalla casa editrice Ponte alle Grazie. Purtroppo però l'edizione italiana non è più in commercio, quindi l'unica possibilità è leggerlo in inglese o cercare tra i libri usati.

Il libro è un po' storia autobiografica e un po' self-help. Ci sono capitoli in cui l'autore ricostruisce alcuni momenti della sua vita con il fardello di un'ansia molto forte e invalidante, con il consueto saliscendi di miglioramenti e ricadute. E capitoli di informazioni o riflessioni sulla malattia; e liste. Matt Haig ama molto le liste ;)

Una volta superata la fase più critica, quello che funziona per Matt Haig per continuare a prendersi cura della sua salute mentale, somiglia molto a quello che funziona anche per me.

E quindi scrivere, leggere, parlare, viaggiare, lo yoga, la meditazione, la corsa sono alcune delle mie armi.

Questo mi suggerisce un esercizio che possiamo fare tutti: mettere giù una lista, la nostra lista di quello che ci aiuta a restare in equilibrio. È una lista personale, non credo esistano formule universali. Ma credo che ognuno di noi possa compilare la propria, tenerla a portata di mano e ogni giorno domandarsi: le sto facendo queste cose?

Un'altra cosa che funziona è affrontare le paure. Perché il gioco è sempre quello: l'ansia ti fa chiudere, ma se cedi troppo spazio a questa chiusura, poi l'ansia peggiora, perché si rafforza la nostra convinzione di essere deboli e di avere bisogno di essere sempre protetti e al sicuro.

Cominciavo a scoprire che, in certi casi, la terapia migliore era sopravvivere a una cosa che avevo tanto temuto di fare. Se cominciate ad avere paura di uscire all'aperto, uscite. Se avete paura degli spazi chiusi, entrate in ascensore. Se avete l'ansia da separazione, costringetevi a restare soli per un po'

E funziona anche, in una certa misura, tutto quello che ti porta a guardare fuori, a spostare il focus dal mondo interiore a quello esterno.

I posti nuovi a volte ci terrorizzano, ma possono anche rivelarsi liberatori. In un luogo familiare la mente si concentra solo su se stessa. Nella propria camera da letto non c'è nulla di nuovo da notare. Nessuna potenziale minaccia esterna, solo quelle interne. Ma costringendosi ad affrontare uno spazio fisico nuovo, preferibilmente in un paese straniero, si finisce per concentrarsi un po' più sul mondo che c'è fuori dalla nostra testa.

Matt Haig ha scritto un altro libro in cui torna sul tema della salute mentale. Si chiama Vita su un pianeta nervoso, e ne ho già parlato nell'articolo: L'ansia ai tempi dei social network.

Le parole per dirlo - Marie Cardinal

Era un vicolo senza uscita, col selciato in rovina, tutto buchi e cunette, con due stretti marciapiedi in parte distrutti. S'infilava come un dito screpolato tra due file di villini a uno o a due piani, stretti l'uno contro l'altro. In fondo era chiuso da due cancelli coperti da una misera vegetazione.

In fondo a questo vicolo, dietro uno di quei cancelli, si trova lo studio dello psicanalista, dal quale Marie Cardinal andrà, tre volte a settimana, per sette anni, per cercare di guarire da quella malattia che lei chiama "la Cosa".

Siamo di nuovo negli anni sessanta, Marie Cardinal ha 30 anni, viene da una famiglia benestante ma infelice. Lei è sposata, ha tre figli, ed è afflitta da continue e misteriose emorragie che la costringono a trascorrere molto tempo chiusa in casa.

Nei colloqui con il terapeuta - che la accoglie per di più in silenzio e la ascolta con attenzione e apertura - a poco a poco i nodi della vita di Marie vengono a galla. Soprattutto il rapporto con la madre, che non l'aveva voluta e non aveva mai fatto niente per tenerlo nascosto.

Marie Cardinal ha pubblicato Le parole per dirlo nel 1974, quando ormai era una scrittrice affermata. Il suo è il racconto di una liberazione: una donna di quel tempo che acquista consapevolezza di sé, del proprio corpo, e riesce - anche grazie alla scrittura - a trovare il suo posto nel mondo.

(...) di notte e di primo mattino, scrivevo. Avevo un quadernetto. Quando lo finii ne presi uno nuovo. Durante il giorno li nascondevo sotto il materasso. Alla sera, quando chiudevo dietro di me la porta della camera da letto, li ritrovavo con la stessa gioia con cui avrei ritrovato un bell'amante.
Tutto si svolgeva con facilità, semplicità. Non mi sembrava nemmeno di scrivere. Prendevo la matita, il quaderno, e divagavo. Non come sul divano del vicolo. Le divagazioni dei miei quaderni consistevano in elementi della mia vita che organizzavo come mi pareva, andavo dove mi piaceva andare, vivevo momenti che non avevo vissuti ma che desideravo, non ero sotto la morsa della verità come dal dottore. Mi sentivo libera come non lo ero mai stata.




Sono quattro libri, quattro racconti molto diversi tra loro. Due sono uomini, e due sono donne. Due contemporanei, e due di qualche decennio fa. Sono libri che ho letto in momenti diversi e li ho amati molto perché mi hanno aiutato a guardare ai miei problemi da una prospettiva nuova. E sono tutti esempi di come scrivere di sé, raccontare l'ansia, la depressione, la paura, possa essere di aiuto e di conforto. E non è necessario essere scrittori, né dare al pubblico il nostro racconto. Un diario è sufficiente ;)


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