In agosto mi sono dedicata a una piacevole attività: ho riletto il mio libro, La rana bollita, in vista della seconda edizione che uscirà il prossimo anno per Sonzogno.

Quel libro l'ho scritto tra il 2016 e il 2017, e ho raccontato cose che erano successe prevalentemente nei due anni precedenti, quindi ricordi piuttosto freschi. Per un periodo, dopo averlo pubblicato, lo tenevo sul comodino e ogni tanto ne rileggevo qualche passaggio. Lo facevo per due motivi. Primo perché non riuscivo a credere di averlo fatto davvero. Desideravo scrivere un libro da sempre, ma ogni volta che ci avevo provato mi piantavo quasi subito, ed ero giunta alla conclusione di non esserne capace. Secondo perché in quel libro avevo raccontato il mio piccolo inferno, e ci avevo messo dentro tutto quello che mi aveva aiutato ad attraversarlo; allora me lo rileggevo pensando: se dovesse capitare di nuovo, devi solo tornare in queste pagine, qui c'è tutto quello che ti serve per superarlo.

Poi, dopo un po' di tempo mi sono abituata, averlo scritto non mi è sembrata più una cosa eccezionale, e la mia copia dal comodino si è spostata nella libreria, dove è rimasta buona riposare fino al mese scorso, quando l'ho tirata fuori per lavorarci.

Questa rilettura a distanza di quattro anni è stata uno strano viaggio. Mi ha fatto riflettere molto, ho visto cose di me che avevo quasi dimenticato. È stato come toccare un reperto archeologico proveniente da un'altra era - anche se in fondo erano passati solo pochi anni - perché ho ritrovato lì, intatta, quella che ero nel momento in cui lo scrivevo. E mi sono convinta ancora di più che scrivere di sé fa bene.

La vita non è quella che si è vissuta

Lo scrittore Gabriel García Márquez, all'inizio della sua autobiografia ha scritto questa frase.

La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla

Una frase che forse può apparire un po' criptica, ma che dice diverse cose. La prima: la vita è quella che si ricorda, ci dice che la nostra vita (con l'eccezione del momento presente) è accessibile solo attraverso la memoria. E questo significa che in gran parte quella che crediamo essere la nostra vita dipende da cosa e da come ricordiamo. Certo ci sono dati oggettivi: quando siamo nati e dove, in quali scuole abbiamo studiato, se eravamo presenti a questo o a quell'evento, chi c'era con noi; ma gran parte di quello che ricordiamo della nostra vita è già frutto di una elaborazione. La memoria infatti non è oggettiva: alcune cose restano, altre le dimentichiamo, la realtà a cui abbiamo accesso attraverso i ricordi non è una verità oggettiva, siamo noi a dargli questo o quel significato. Ma non solo: la vita è nel ricordo, ma è anche e soprattutto nel racconto. I nostri ricordi come sono? Magmatici, confusi, informi, non somigliano un po' ai sogni? Se li traduciamo in parole, se li raccontiamo, allora diventano concreti e prendono una loro forma. Anche qui, ancora un volta, li trasformiamo: nelle parole che scegliamo di usare, nelle frasi, nelle metafore, in tutti gli aspetti del linguaggio che utilizziamo per raccontare di noi. E questo avviene se il racconto è destinato ad altri, ma anche in una forma di scrittura privata come un diario. Anche quando stiamo parlando a noi stessi, ci raccontiamo una storia.

Doppia trasformazione quindi, una a opera della memoria, l'altra a opera del linguaggio.

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In questo scrivere, ricordare, ed elaborare si nascondono molte potenzialità. Non sono i pochi ad affermare che la scrittura può essere anche curativa.

Non so se qualcuno abbia mai provato a spiegare esattamente il perché. Io mi sono fatta l'idea che quando scriviamo di noi - un diario, una lettera, un racconto autobiografico - succedono essenzialmente tre cose che ci aiutano a comprenderci meglio e a elaborare in modo costruttivo le nostre esperienze ed emozioni.

  1. Osservare. Scrivere di sé serve in primo luogo a osservarsi e a prendere le distanze. Nel gesto dello scrivere i ricordi, i pensieri, le emozioni, i dubbi, le preoccupazioni, escono dalla nostra testa e finiscono su un foglio, o su uno schermo. È come se facessimo un passo indietro. Passiamo dall'essere del tutto identificati con quello che ci passa per la testa, al poterlo osservare trasformato in parole. Questo ci dà accesso a una conoscenza diversa e, forse, più profonda di noi stessi. Da questo punto di vista scrivere somiglia alla meditazione. Noi siamo immersi di continuo nel flusso della nostra coscienza, che è fatta di pensieri, di emozioni e di percezioni che provengono dall'ambiente. Si dice che meditare significhi uscire per un momento dalla corrente, sedersi a riva e osservare il fiume che scorre. Anche scrivendo succede qualcosa di simile. Per esempio quando ci sentiamo arrabbiati e stiamo a rimuginare su quello che è successo, è facile che siamo completamente immersi nelle emozioni e che ci identifichiamo del tutto con la nostra rabbia. Se invece mi siedo e comincio a scrivere: sono arrabbiata perché... mi potrebbe venire più facile guardare questa mia rabbia, rifletterci sopra, capirla meglio.
  2. Trasformare. Quando prendiamo i nostri pensieri e li traduciamo in parole diventiamo più capaci di osservarli ma anche di elaborarli. Si trasformano. Anche se stiamo scrivendo per esempio un diario che nessuno oltre noi leggerà, scrivere è sempre un atto comunicativo, rende intelligibile e, appunto, comunicabile, ciò che di partenza non lo è perché sta solo dentro di noi e in una forma che non è quella del linguaggio. Attraverso la parola scritta possiamo per esempio trasformare un'emozione che lì per lì ci può sembrare troppo scomoda, o ingombrante, o spaventosa. Scrivendone la possiamo osservare da una posizione leggermente diversa, vederne aspetti che non avevamo preso in considerazione. Può darsi che scrivendo di un episodio che ci ha messo in difficoltà o di un problema che abbiamo, ci vengano in mente delle soluzioni. Può darsi che consegnare alla carta un ricordo che ci tormenta ci aiuti a depotenziarlo. La parola scritta ci aiuta a mettere una distanza e in questa distanza diventiamo più capaci di soluzioni creative. Sempre con il patto che, soprattutto se scriviamo di cose che ci mettono in difficoltà, lo facciamo con delicatezza e rispetto, senza forzare, e smettiamo se ci accorgiamo che ci fa più male che bene.
  3. Lasciare tracce. Se scrivo significa che poi volendo posso andare a rileggere. Non è obbligatorio, ma rileggersi a distanza di tempo, qualche mese o magari anche anni, riserva sempre delle sorprese. Noi siamo abituati a considerare la nostra identità come qualcosa di granitico. Io sono io, ero sempre io a diciotto anni quando facevo l'esame di maturità, o a trenta quando ho lavorato come bibliotecaria per qualche mese, o a quarantacinque quando mi sono sposata. Ma ci sorprenderemmo se potessimo tornare nei panni del nostro io del passato per quanto eravamo diversi. Scrivere significa lasciare tracce e toccare con mano quanto siamo cambiati. Problemi che in un certo momento della nostra vita ci sembravano montagne e che poi abbiamo superato brillantemente, o di cui invece adesso non ci importa più niente. Cose che sognavamo di potere avere, risultati che volevamo a tutti i costi ottenere, passaggi che ci spaventavano e che oggi invece diamo per acquisiti. Rileggere quello che abbiamo scritto in passato ci aiuta a relativizzare il presente perché puoi stare certa (o certo) che quel problema o quella preoccupazione che oggi ti toglie il sonno, tra qualche anno non avrà tutto questo significato. È sempre interessante scoprirsi cambiati, aggiunge un elemento in più alla comprensione del presente. Ci dà il senso della crescita, dell'evoluzione, oppure ci aiuta a scoprire dei percorsi fissi, delle strade che tendiamo a prendere nonostante il passare degli anni.

Scrivere richiede tempo e anche una certa dedizione. A qualcuno non interessa, altri invece vorrebbero farlo ma sono trattenuti.

Non so cosa scrivere.

Non so scrivere bene.

Queste sono le due obiezioni più comuni.

Per quanto riguarda la prima, si può cominciare a scrivere a partire da qualsiasi stimolo, dai più semplici ai più complicati. Nel proseguo dell'articolo proverò a fare qualche esempio di esercizio che possiamo fare.

Per quanto riguarda la seconda, la verità è che non importa. Non stiamo parlando di essere scrittori, e nemmeno di scrivere un tema per la scuola. La regola per questo tipo di scrittura è non curarsi della grammatica, dello stile, degli errori. Spesso la prima barriera che abbiamo rispetto alla parola scritta è proprio questa: è come essere a scuola, qualcuno ci darà un voto. Qui invece proviamo ad abbandonare completamente questi timori e a lasciare che le parole escano come pare a loro, nessuno leggerà, nessuno ci metterà un voto. E se un domani vogliamo fare leggere ad altri qualcosa che abbiamo scritto, allora ci sarà tempo per correggere gli errori e dare una sistemata al tutto.

Qui di seguito ti presento tre esercizi tratti da altrettanti libri che hanno parlato, in modi diversi, della scrittura di sé. Sono esercizi in ordine di complessità: il primo è il più semplice e veloce, l'ultimo richiede più tempo e impegno.

L'esercizio dei due minuti

Il primo libro si intitola È facile lavorare felici se sai come farlo, scritto da Chade-Meng Tang. Non è un libro interamente dedicato alla scrittura: parla di mindfulness e di intelligenza emotiva e propone diversi esercizi, tra cui anche la scrittura.

Ecco cosa scrive l'autore al riguardo.

Potete pensare alla scrittura autobiografica come alla consapevolezza dei pensieri e delle emozioni; porre attenzione di momento in momento, senza giudicare, ai pensieri e alle emozioni man mano che sorgono in voi e facilitare il loro fluire mettendoli per iscritto. Si può guardare a questo esercizio in un paio di modi diversi. Il punto di vista di un ingegnere come me è che si tratta di un mucchio di spazzatura non differenziata del cervello, che viene scaricato su carta. Oppure, in modo più poetico, è considerare i vostri pensieri come la corrente di un ruscello e cercare di trasferirla su carta.

Per fare questi esercizi bisogna seguire un paio di semplici regole: scrivere di seguito, di getto, senza staccare la penna dal foglio possibilmente e senza correggere. Utile avere un timer.

Potete preparavi dei foglietti, ognuno con una frase iniziale diversa. Per esempio:

  • Quello che provo ora è...
  • Mi rendo conto che...
  • Le mie motivazioni sono...
  • Oggi desidero...
  • In questo momento sto pensando a...
  • Quello che mi ferisce è...
  • Quello che sto pensando adesso è...

Chiudeteli, o arrotolateli, e metteteli da parte. Poi dedicate ogni giorno a fare l'esercizio. Prendete carta e penna, il timer, pescate a caso uno dei foglietti, lo aprite e scrivete per due minuti. Fatto. Niente di più semplice. Potete rileggere subito quello che avete scritto, oppure lo mettete da parte e rileggere tutto assieme magari alla fine della settimana, o del mese (o anche mai più, non c'è obbligo di rileggersi).

È semplicissimo. Chiunque abbia voglia di sperimentare un po' di scrittura autobiografica ma si sente scoraggiato o spaesato potrebbe cominciare da qui. Non si può sbagliare.

Scriviti una lettera

Scrivere la mente, di Nicoletta Cinotti, è un libro interamente dedicato al tema meditazione e scrittura.

Con la meditazione impariamo a diventare consapevoli dei pensieri e delle voci che ci abitano; con la scrittura li possiamo guardare in faccia. Così il tono di voce, il ritmo, l'energia, la pesantezza e la leggerezza cominciano a essere aspetti che definiscono meglio l'esperienza piuttosto che il contenuto dei nostri pensieri. (...) Iniziamo a prendere una distanza che ha una funzione strana: ci avvicina all'esperienza anziché allontanarci. È una distanza che ci allontana dai pensieri - e dalle voci critiche - e ci avvicina a noi.

Gli esercizi di scrittura proposti in questo libro sono tutti molto intimi e delicati e toccano vari aspetti del rapporto che abbiamo con noi stessi e con la nostra esperienza. Tra tutti ne ho scelto uno che ci aiuta a lavorare con le nostre voci critiche.

Sul tema del critico interiore si potrebbe scrivere molto, e sicuramente ci tornerò. Credo che tutti, chi più o chi meno, abbiamo ogni tanto dei problemi con questa voce che ci rimprovera, sottolinea i nostri sbagli, ci giudica e ci critica. Qualche volta, non dico di no, è pure utile: ci sprona a darci da fare nella giusta direzione o a correggere i nostri errori. Tante volte però siamo troppo duri: ci rivolgiamo a noi stessi usando parole e toni che mai ci sogneremo di indirizzare ad altre persone. Quando siamo alle prese con problemi complicati che facciamo fatica ad affrontare, o con emozioni difficili che ci fanno vergognare, il critico interiore spesso alza la voce (quando invece dovrebbe proprio abbassarla), aggiungendo a situazioni già difficili l'ulteriore carico del rimprovero e della critica.

Ecco quindi l'esercizio. Prendi un aspetto di te su cui tendi a essere molto critica (o critico). Qualcosa per cui ti rimproveri spesso. Io per esempio mi rimprovero perché sono disordinata, o perché mi alzo troppo tardi al mattino. Ma può essere una cosa qualsiasi: un aspetto del tuo corpo che credi non vada bene, un certo modo di relazionarti agli altri che non ti piace, un impegno che hai rimandato e al quale invece avresti voluto fare fronte. Una cosa qualsiasi di te che non ti piace e per la quale tendi spesso a rivolgerti dei rimproveri. Ora scrivi una lettera indirizzata a te per consolarti. Fai finta di essere un tuo amico che viene da te e ti dice: mi rimprovero molto per questa cosa. Cosa diresti per consolarlo?

Scrivi una bella lettera, anche lunga se ti viene, e cerca di capire che cosa si attiva attraverso la consolazione. Avevi bisogno di questa consolazione? Diventi auto-indulgente e ti assolvi? Oppure al contrario se sostituisci la critica con un atteggiamento amichevole e compassionevole si attiva una crescita e un cambiamento?

Puoi tenere la lettera con te e tornare a leggerla ogni volta che avrai la sensazione che la tua voce critica interiore diventi troppo severa.

Ancora più creativi

Un modo ancora diverso per lavorare con la scrittura di sé, è quello più narrativo. Partiamo da noi e costruiamo una storia, un dialogo, una scena, dei personaggi. Uscire un po' dall'esercizio e andare verso la costruzione di un racconto - che può essere solo per i nostri occhi o anche per qualcun altro.

La scrittura di sé è un filone molto fecondo della narrativa, le opere con un taglio autobiografico sono tante e qualche volta molto belle. Tra i libri che mi sono piaciuti di più in assoluto ce ne sono alcuni di questo genere. Il male oscuro di Giuseppe Berto, Le parole per dirlo di Marie Cardinal, Io so perché canta l'uccello in gabbia di Maya Angelou, ma anche Fame di Roxane Gay, Yoga di Emmanuel Carrere, On Writing di Stephen King. Ho fatto un elenco così a caso, citando a memoria quelli mi sono venuti in mente per primi.

È tutto un altro modo di scrivere di sé: non un foglietto da tenere nel comodino o un quaderno segreto, ma  un racconto che nasce per essere letto. Eppure non è così distante dall'esercizio di distendere i pensieri o dal tentativo di lenire le ferite scrivendo. Sempre di scrittura si tratta. Magari cominciamo con lo scrivere per due minuti ogni sera di quello che ci passa per la mente in quel momento (come nell'esercizio uno), e poi scopriamo che ci fa stare bene e ci piace e allora cominciamo a tenere un diario, o a scrivere delle lettere (come nell'esercizio due) e poi scopriamo che questa materia, così calda e magmatica come la nostra vita, la vogliamo raccontare, magari non tutta, ma un pezzettino sì.

Anche qui si può partire con scritture minime, piccoli esercizi per cominciare a maneggiare la materia. Rossana Campo, una scrittrice italiana che leggevo molto volentieri anni fa (poi senza un motivo preciso ne avevo perso le tracce) ha scritto questo piccolo manuale dal titolo Scrivere è amare di nuovo, utile per chi abbia voglia di esercitarsi a raccontare di sé.

Se continuate a scrivere e non vi fermate, non potrete fallire. Non nel senso che prima o poi vi daranno il Nobel per la Letteratura, ma di sicuro da qualche parte arriverete. Il vero fallimento arriva solo quando rinunciamo. A cosa? A scoprire chi siamo, qual è la nostra storia e cosa abbiamo dentro. (...) La scrittura autobiografica può aiutarci a scoprire che la nostra vita è ordinaria e sacra. Diciamo un sacro sì alle cose della nostra vita così come sono. A tutto ciò che è in noi. Benvenute ferite, benvenuti sensi di colpa. Accomodatevi rabbia, invida e vergogna; con la scrittura posso abbracciarvi tutte, posso vedere la vostra essenza

Degli esercizi che si incontrano nel libro, ti propongo qui di fare il primo. Servono un quindici o venti minuti quindi meglio prendersi un momento di calma. L'esercizio è questo. Scrivi la tua autobiografia in sette tappe. Sette momenti/eventi della tua vita, le cose principali. Io ho scritto tre/quattro righe per ogni tappa che mi veniva in mente, anche se non tutto era perfettamente in ordine cronologico. Poi rileggi quello che hai scritto e pensa a un'altra tappa, un altro elemento importante che però non avevi incluso nei primi sette. Poi metti il solito timer e scrivi per dieci minuti su quest'ultimo punto.

Io curiosamente mi sono accorta, facendo l'esercizio di getto, di avere escluso un evento molto importante in prima battuta, e poi proprio su questo ho scritto per altri dieci minuti.


Quello che ho provato a fare in questo articolo è proporre un mini-percorso, cominciare da una pratica di scrittura autobiografica minimale, per andare verso qualcosa di più complesso e articolato. Io non dico che scrivere sia una pratica adatta a tutti. A molti - anzi alla maggioranza - non piace, non lo trovano utile, o interessante. Ma se invece sei tra chi vorrebbe scrivere, o scrivere di più, ma non ci riesce, ecco io spero che in questo articolo ci sia qualcosa di utile a cui aggrapparsi per non lasciare perdere. Perché quando si sente quella spinta, vale la pena ascoltarla.

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