Si parla abbastanza di ansia? Qualcuno dice di no, che se ne parla troppo poco. La mia sensazione è che il punto non sia quanto se ne parla, ma come. Come ne parlano le persone coinvolte nel problema, e come ne parlano quelli che invece gli ansiosi non li capiscono. Negli ultimi anni però qualcosa sta cambiando. Sembra che la comunicazione sul tema della salute mentale stia diventando sempre più diffusa, si fanno campagne di sensibilizzazione, circolano sicuramente più informazioni e forse comincia a esserci in generale una maggiore consapevolezza. Questo secondo me è interessante anche per ragionare su come noi (intendo noi ansiosi) parliamo del nostro problema.

Lady Gaga, Katy Perry,  Justin Bieber, Kanye West, hanno in comune almeno due cose: sono cantanti super famosi, ricchi e di successo, e hanno (o hanno avuto) problemi di salute mentale. Depressione, disturbo post-traumatico, attacchi di panico, disturbo bipolare. E ne hanno parlato in pubblico, esponendo le loro fragilità e richiamando attenzione sul tema.

Alcuni scrittori, nel passato e nel presente, hanno scritto libri molto belli e intensi proprio parlando delle loro difficoltà. Penso per esempio a Le parole per dirlo della scrittrice Marie Cardinal, Il male oscuro di Giuseppe Berto, Parla mia paura di Simona Vinci, o il più recente Yoga di Emmanuel Carrere (cito questi perché li ho letti e mi sono piaciuti, ne ho parlato anche qui: Quattro libri per quattro storie su ansia e dintorni).

Più di recente anche alcuni campioni sportivi hanno fatto dichiarazioni pubbliche al riguardo. Michael Phelps, il nuotatore che ha vinto più medaglie olimpiche della storia, già qualche anno fa ha detto pubblicamente di soffrire di depressione, ed è tornato sull'argomento durante i primi mesi della pandemia.

Prima delle Olimpiadi di Rio de Janerio, ho parlato pubblicamente per la prima volta i miei problemi di salute mentale. Non è stato facile ammettere di non essere perfetto. Ma aprirmi ha tolto un grosso peso dalle mie spalle. Mi ha reso la vita più facile. Adesso mi apro di nuovo. Voglio che le persone sappiano che non sono sole. In molti stiamo combattendo contro i nostri demoni adesso come mai prima. (...) Come la combatto? Per me, io devo andare i palestra tutti i giorni per almeno 90 minuti. È la prima cosa che faccio. (...) E guarda, ci sono giorni in cui non voglio andarci. Ma mi sforzo di farlo. So che è per la mia salute mentale, tanto quanto per quella fisica.

Oltre all'allenamento in palestra, Phelps cita la meditazione e la scrittura del diario come strumenti che utilizza per  prendersi cura della sua salute.

A maggio di quest'anno, la tennista giapponese Naomi Osaka, durante il Roland Garros ha prima dichiarato che non avrebbe partecipato alle conferenze stampa dopo le partite perché giudicava negative per la sua salute mentale le domande pressanti dei giornalisti. Quando poi è stata multata e anche aspramente criticata per questa decisione, ha deciso di ritirarsi dal torneo. Questi alcuni passaggi della sua dichiarazione.

Ho sofferto di lunghi periodi di depressione dagli US Open nel 2018 e ho avuto davvero difficoltà ad affrontarlo. Chiunque mi conosca sa che sono introversa, e chiunque mi abbia visto ai tornei avrà notato che indosso spesso le cuffie perché questo aiuta a smorzare la mia ansia sociale. Anche se la stampa  è sempre stata gentile con me (...), non mi viene naturale parlare in pubblico, e mi vengono enormi ondate di ansia prima di parlare con i media. Divento molto nervosa e trovo stressante cercare di essere coinvolgente e di dare le risposte migliori.
Così qui a Parigi mi sono sentita molto vulnerabile e ansiosa e ho pensato che fosse meglio prendermi cura di me stessa annunciando che avrei saltato le conferenze stampa.

In agosto è stata la volta di Simone Biles, super campionessa di ginnastica artistica, che senza preavviso si è ritirata da molte delle gare olimpiche che doveva disputare a Tokyo. Ha detto di soffrire di un disturbo della propriocezione (le accade di perdere la consapevolezza della posizione e del movimento del suo corpo) e di non essere in forma dal punto di vista emotivo.

Il mio corpo e la mia mente hanno semplicemente detto no. Nemmeno io mi sono resa conto di cosa stavo attraversando finché non è successo. (...) Bisogna dare la precedenza alla salute mentale, perché se non lo fai non ti divertirai con il tuo sport e non riuscirai ad avere il successo che desideri. È ok qualche volta saltare le grandi competizioni per focalizzarti su te stessa.

Naomi Osaka

Sia Naomi Osaka che Simone Biles hanno ricevuto critiche più o meno dirette per avere mostrato in questo modo la loro vulnerabilità. Sono venute meno all'ideale dell'atleta, che per definizione è forte, nel corpo e nella mente e questo per qualcuno è stato spiazzante.  Se non fossero state fisicamente in grado di competere, nessuno avrebbe avuto da ridire, anzi avrebbero incassato solidarietà da ogni parte. Ma ritirarsi da una competizione adducendo problemi di salute mentale è percepito in tutt'altro modo. Un danno fisico è evidente: è lì sotto gli occhi di tutti che stai male e che non puoi fare quello che devi (o che vuoi). Se il danno è altrove, nella mente, nella psiche, nell'anima, diventa tutto diverso: è un male che non si vede e venire meno ai propri doveri sembra più frutto di una scelta arbitraria, legata a un  momento di debolezza e all'incapacità di gestire le pressioni.

Certo le pressioni a cui sono sottoposti gli atleti non sono quelle di noi comuni mortali... eppure suona tutto molto familiare: c'è qualcosa che ti corrode da dentro, che è solo nella tua testa, e per questo credi di dovere essere in grado di controllarlo e di non permettere che interferisca con la tua vita. Poi ti accorgi che non ce la fai, che hai bisogno di una pausa, che il lavoro o gli impegni familiari diventano troppo gravosi, e lì ti ritrovi smarrito, perché da una parte sai che devi prenderti cura di te, ma attorno c'è il vuoto, non c'è un percorso chiaro a cui affidarti: non sai esattamente a chi rivolgerti, hai timore a dichiarare persino al tuo medico come ti senti, e anche parlarne con le persone vicine potrebbe essere complicato. In ambito professionale poi il timore di essere giudicati male, di perdere rispetto e autorevolezza, per qualcuno può essere paralizzante.

Io credo, e spero, che queste prese di posizione da parte di personaggi così in vista, e soprattutto riconosciuti per essere un modello di forza, stabilità, competitività, possa aiutare il lungo percorso che porta alla rimozione dello stigma nei confronti della salute mentale. Forse a poco a poco si comincerà a costruire una nuova e diversa immagine sociale di chi affronta un problema di salute mentale (e della salute mentale in generale).

Finora infatti mi sembra che la tendenza sia oscillare tra queste due narrazioni.

La prima è quella del matto, dello squilibrato, che per definizione è inaffidabile, forse pericoloso per se stesso o per gli altri. Qualcuno che comunque non è inserito nella società, non è normale, di certo non è in grado di funzionare.

Il secondo è quello della persona fragile e forse anche capricciosa, che non ha niente ma si inventa malattie, sintomi, che ha paura di tutto, e non ci mette abbastanza forza di volontà per fortificare il suo carattere e la sua mente.

Quello che manca, che è ancora da costruire, è intanto la consapevolezza che la salute mentale merita la stessa considerazione e attenzione di quella fisica e che chiunque, veramente chiunque, può attraversare momenti di difficoltà nella vita.

E poi ancora non è ben chiaro ai più cosa significhi soffrire di ansia, di depressione o di altri accidenti similari.

Significa che hai un disturbo che non si risolve in tempi brevi e che in molti casi tende a ripresentarsi più volte nella vita e che per qualcuno può diventare cronico. Una problematica che va affrontata con l'aiuto di professionisti qualificati, e non con la forza di volontà o ripetendosi allo specchio belle parole. Una condizione che per la maggior parte del tempo non impedisce alle persone di essere quello che vogliono essere - campionesse sportive o modeste impiegate - ma che in alcune fasi può diventare anche molto invalidante e impedirti di fare cose normali come guidare una macchina o entrare in un supermercato. Una malattia che non si vede, che si può anche nascondere molto bene, che colpisce le persone con livelli di gravità e caratteristiche diverse, che non ha una causa ben precisa.  

Tutta questa roba qui non è vista, non è riconosciuta, non è considerata. Non ha una rappresentazione socialmente condivisa.

Salute mentale e assertività

Una cosa che colpisce leggendo le dichiarazioni degli atleti e delle atlete riguardo la salute mentale è che mi sembra affrontino il tema con una certa consapevolezza e assertività.

Ne hanno parlato, si sono esposte... ma non è solo questo, è anche il modo in cui ne hanno parlato.  

Si discuteva di questo nel gruppo su Facebook (qui se vuoi partecipare – > Gruppo di My Way Blog) e una persona mi ha detto che secondo lei parlare di queste problematiche era peggio, le rendeva più reali e spaventose.

È un commento che mi ha colpito perché ci ho visto un sottofondo di verità che lì per lì non sono riuscita a capire perché contraddiceva tutto quello che ho sempre pensato e detto al riguardo.

Ci ho ragionato e mi è venuto in mente che io sono sempre stata alla larga da forum e gruppi online in cui si discute di ansia. E qualche volta sono stata anche un pochino dura (secondo qualcuno anche troppo dura) nello stroncare certe discussioni proprio all'interno del gruppo. Non perché io non voglia che nel gruppo si parli di ansia, è che non mi piace che se ne parli in un certo modo. Ma in che modo? e perché?

Insomma mi sono arrovellata un bel po', domandandomi se la mia posizione al riguardo non fosse incoerente. Nel frattempo mi è successo di andare a fare un esame medico, e di sentirmi al riguardo particolarmente ansiosa perché sapevo che avrei sentito un po' di dolore. Ho detto alla dottoressa una cosa del genere: io soffro di ansia, è sempre un po' una battaglia per me affrontare questi controlli, però so che li devo fare, farò del mio meglio per stare calma affinché lei possa fare il suo lavoro, però lei sappia che è molto faticoso per me. E lei dall'altra parte in qualche modo mi ha fatto intendere che capiva: non ha cercato di minimizzare, ma nemmeno ha provato a essere rassicurante. Solo dopo, a esame terminato, ha commentato che il mio modo di fare le sembrava molto razionale.

Di solito le mie interazioni con i medici non sono mai positive. Perché stavolta lo è stata? Merito suo? Cioè ho trovato forse una dottoressa brava e comprensiva? Sicuramente sì, è vero. Ma non è che forse un po' è anche merito mio? Perché a differenza del mio solito ho parlato in modo chiaro di quello che mi preoccupava, usando un tono di voce deciso e non quello un po' piagnucolante e lamentoso che, ahimè, spesso mi esce quando sono agitata o spaventata. Perché le ho espresso i miei bisogni senza nascondermi e senza pretendere che lei dovesse indovinare come mi sentivo. Avrà influito anche questo?

Ed è stato qui che mi è tornata in mente la parola assertività.

Passivi, aggressivi, assertivi

Ho un vecchio libro che parla di comunicazione assertiva. Si chiama La libertà di essere se stessi e l'autore è Franco Nanetti, psicologo, psicoterapeuta e docente all'università di Urbino. Non metto il link perché il libro è ormai fuori catalogo, ma sulla comunicazione assertiva di cose ne trovate diverse perché se ne parla da decenni. L'autore, anche se non è conosciuto come altri psicologi che scrivono libri di divulgazione, è molto bravo e se vi capitano sottomano altri suoi testi ve li consiglio.

Il comportamento assertivo è quello che si colloca nella giusta via di mezzo tra il modo di fare aggressivo e quello passivo.

Un comportamento aggressivo, anche se sarà utile a indurre gli altri a cedere alle nostre richieste, diventerà fonte di tensioni e rotture (le persone che hanno subito la nostra collera avranno difficoltà a essere leali con noi e spesso proveranno ostilità e desiderio di vendetta).
Un comportamento passivo, anche se destinato in un primo momento a metterci al riparo da ogni possibile ritorsione, con il passare del tempo non farà altro che alimentare sfiducia e incomprensioni. Con il nostro modo di agire rinunciatario, infatti, daremo l'immagine di persone poco chiare, ambigue ed equivoche, alimenteremo in noi infelicità e frustrazione per non riuscire a ottenere ciò che desideriamo, avremo la costante sensazione di essere inferiori agli altri e incrementeremo in loro, a dismisura, superbia e pretenziosità.  

Sudditanza e dominio, dice l'autore, sono linee di condotta opposte, ma destinate entrambe al fallimento.

L'assertività invece è uno stile di comunicazione e di comportamento con il quale si affermano i propri diritti senza negare quelli degli altri e si comunicano i propri desideri, intenzioni e giudizi in maniera chiara e diretta.

Provo a fare un esempio di una situazione. Riunione di lavoro, ogni volta che prendi la parola non riesci a finire di dire quello che pensi perché un collega ti interrompe di continuo. Un comportamento passivo è quello di non dire niente, ricacciare indietro il fastidio, e rinunciare a esporre il tuo pensiero dicendo a te stesso che in fondo non era poi così importante. Un comportamento aggressivo è quello di alzare la voce contro il collega che ci ha interrotto (assumendo il suo stesso atteggiamento). Infine, un comportamento assertivo può essere quello di riprendere la parola con fermezza dicendo: mi hai interrotto, vorrei invece potere finire di dire quello che penso.

Comportarsi in modo assertivo non è facile per niente se non ti viene naturale, e viene naturale tendenzialmente alle persone abbastanza sicure di sé e con una buona autostima. Però è vero che l'assertività si può esercitare ed è importante provarci perché quando riusciamo a comunicare in modo assertivo di solito le nostre interazioni con gli altri sono più soddisfacenti ed è più facile riuscire a ottenere quello che desideriamo.

Dovremmo ricordarci che in generale le persone con cui interagiamo non sono lì per soccorrerci, né hanno la sfera di cristallo per sapere cosa ci passa per la testa e di cosa possiamo avere bisogno.

Ora, cosa c'entra l'assertività con l'ansia?

C'entra per almeno due ragioni.

1) La mancanza di assertività tende ad alimentare l'ansia. Mettersi in un angolo, cercare sempre di piacere a tutti, accantonare i propri bisogni significa continuare a negare se stessi e questo non può fare altro che renderci sempre più insicuri e ansiosi. E, dal versante opposto, anche nascondere le proprie insicurezze dietro un comportamento aggressivo o ipercritico non ci fa bene, ci porta a vivere in un'atmosfera di conflitto perenne e le persone prima o poi si allontaneranno da noi perché a nessuno piace essere aggredito.

2) E qui torniamo al punto principale dell'articolo, è proprio del tema ansia che potremmo cominciare a parlare con modalità assertive. Non bisogna parlarne per forza, non è quello il punto, ognuno può decidere se, come, quando e con chi condividere questioni riguardo la propria salute. Però, nel momento in cui ne parliamo, allora facciamolo in modo giusto.

Quello che mi ha colpito delle dichiarazioni che ho riportato all'inizio dell'articolo è proprio questo. Mi sembrano affermazioni assertive: ho bisogno di prendermi cura di me stessa, la mia salute mentale è importante e voglio occuparmene, io ho deciso di non partecipare alle conferenze stampa, ho bisogno di isolarmi e quindi metto le cuffie, devo andare ad allenarmi in palestra tutte le mattine altrimenti non sto bene.

Quante volte siamo in grado di parlare così dei nostri problemi, e quante invece non finiamo con lo scivolare in una comunicazione passiva e piagnucolosa? Quante volte invece di esprimere in modo chiaro i nostri bisogni cerchiamo genericamente una rassicurazione che dura il tempo di un battito d'ali? Certamente, la paura e il bisogno di rassicurazioni fanno parte della natura stessa dei disturbi dell'ansia, ma una volta che l'abbiamo capito, una volta che abbiamo imparato a conoscere le mille sfaccettature dei nostri problemi, perché non prenderci la responsabilità di parlarne in modo, appunto, assertivo? Di prendere posizione, con serenità.

Il che può significare molte cose. Per esempio

  • smettere di credere nella cura miracolosa che risolve tutto da un momento all'altro
  • smettere di chiedere in continuazione rassicurazione a tutti per le mille paure che abbiamo
  • dire in modo chiaro di cosa abbiamo bisogno anche quando sembrano cose fuori dal comune
  • smettere di fingere che vada tutto bene se così non è
  • dire di no senza problemi quando abbiamo la certezza di non volere partecipare a un evento (un cena, una festa, un viaggio) - ovviamente verificando prima con noi stessi che non stiamo mettendo in atto meccanismi controproducenti di evitamento
  • dare spiegazioni, quando è necessario, riguardo il nostro problema con tono di voce tranquillo e chiaro, senza vergogna
  • porre a medici, psicoterapeuti e psichiatri tutte le domande che riteniamo necessarie per risolvere i nostri dubbi
  • capire cosa ci fa bene e dire alle persone che ci sono vicine che certe cose non sono negoziabili

Imparare, noi per primi, a parlare di salute mentale in modo assertivo è doppiamente di aiuto. Aiuta prima di tutto noi stessi, così usciamo dal ruolo della vittima perennemente in cerca di comprensione e rassicurazione, e usciamo anche da quel sentimento di vergogna che non fa altro che peggiorare le cose. Allo stesso tempo contribuisce al formarsi di una immagine sociale diversa e più reale della salute mentale e dei suoi problemi.

Mi piacerebbe allungare questo elenco. Voi in che modo pensate si possa comunicare in modo assertivo le questioni che riguardano la nostra salute mentale?