Qualche settimana fa mi sono imbattuta in un post della psicologa Laura Bongiorno e sono rimasta colpita da una espressione: essere esperti di se stessi.

Mi ha fatto pensare a quante volte, soprattutto in passato, ho creduto che dovessero essere le altre persone a dirmi cosa dovevo fare e ad aiutarmi a capire chi ero veramente.

È questo che si intende quando si dice che una persona è insicura: quando sembra abbia difficoltà a prendere decisioni e prova il bisogno di appoggiarsi ad altre persone alle quali attribuisce il potere di sapere cosa sia giusto fare.

Certe volte questo atteggiamento arriva al paradosso: continuiamo ad affidarci agli altri, credendo nel potere del loro consiglio e del loro appoggio, e nemmeno ci accorgiamo che alla fine questi altri hanno una conoscenza della situazione molto inferiore alla nostra. Magari ci vogliono bene e ci tengono a essere di aiuto, ma hanno i loro problemi, le loro frustrazioni, i loro malumori. E , soprattutto, hanno la loro visione del mondo e della vita, di quello che è giusto e di quello che non lo è. Ma è la loro appunto, non è la tua.

È vero: ci sono situazioni in cui può succedere che chi ci conosce bene veda in noi qualcosa che in quel momento noi non riusciamo a vedere. Certe volte la parola giusta detta al momento giusto può essere di grande aiuto.

Ma non è il normale andamento delle cose. La norma è che solo tu ti conosci abbastanza bene da sapere di cosa hai bisogno. E non è tutto: solo tu hai il potere di procurarti quello di cui hai bisogno, o per lo meno di provarci.

È anche un fatto di responsabilità, e questo forse è il passaggio più ostico. Nel momento in cui ci prendiamo la responsabilità delle nostre scelte, stiamo mettendo in conto anche di sbagliare, o di prendere decisioni che scontentano qualcuno.

Sì perché è tutto collegato. L'insicurezza, il chiedere agli altri cosa è giusto fare, ha anche a che vedere con il non volersi prendere la responsabilità delle proprie scelte. E anche con il non volere correre il rischio di essere disapprovati.

È facendo così, credo, che ci perdiamo. Forse accade quando giovanissimi, e poi, anni dopo, quando ci accorgiamo di essere diventati stranieri a noi stessi ci tocca fare una gran fatica per ritrovarci.

Poi si sbaglia comunque: cominciare (o ri-cominciare) a camminare davvero sulle nostre gambe può essere difficile, ma esistono alternative?

È la strada in cui io mi sono messa con decisione ormai da parecchi anni, e continuo a sbagliare e a fallire, ma non ho mai più avuto la sensazione di essere totalmente persa come mi capitava quando mettevo il bisogno di essere accettata e approvata davanti a tutto. Questa mi sembra la cosa più importante.


L'angolo dei libri

Questo mese mi gioco un pezzo grosso, un libro che metterei al primo posto se dovessi fare la classifica dei libri più belli mai letti. 

Allo stesso tempo un libro non facile, di quelli che richiedono una certa concentrazione e volontà. Un libro non per tutti insomma.

José Saramago ha vinto il Nobel per la letteratura nel 1998, e Cecità è considerata una delle sue opere più significative.

Di cosa parla?

Un giorno all'improvviso, in una città che potrebbe essere qualunque città, di un qualunque paese del mondo, un uomo fermo a un semaforo, non ci vede più: è diventato cieco.

È il "paziente zero". Dopo di lui la cecità si diffonde come un'epidemia e colpisce progressivamente sempre più persone.

Scatta così lo stato di emergenza, i ciechi vengono rinchiusiisolati, costretti a vivere in condizioni pietose. Ridotti a prigionieri senza diritti da quei pochi che avevano conservato la vista.

Tra i derelitti c'è chi si sforza di restare umano, creando legami e solidarietà con gli altri, e chi al contrario sceglie la via della violenza e della sopraffazione.

È sempre lo stesso tema dello scontro tra il bene e il male, e di cosa può accadere in condizioni estreme quando è in gioco la sopravvivenza. La natura dell'uomo è buona o cattiva? Quando le cose si fanno veramente difficili vince l'egoismo o la collaborazione?

Tra i ciechi rinchiusi c'è anche una donna che per non venire separata dal marito ha finto di essere cieca pure lei, anche se in realtà vede ancora. Ed è attraverso il suo sguardo - l'unica tra i personaggi ad averlo ancora conservato - che assistiamo a tutta la vicenda.

Uno dei motivi che rendono impegnativa la lettura, è che Saramago non usa la normale punteggiatura per i dialoghi, ma si limita a separare le battute con una virgola, come in questo bellissimo frammento che suggerisce una possibile chiave di lettura di tutto il libro.

Perché siamo diventati ciechi, Non lo so, forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione, Vuoi che ti dica cosa penso, Parla, Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.

Ho letto Cecità parecchi anni fa. L'ho ripreso in mano adesso per scrivere queste poche righe, e le sue pagine fitte fitte, senza respiro, mi hanno fatto domandare se sarei capace di rileggerlo adesso. Ci siamo troppo abituati alle letture facili, scorrevoli, ariose. Però certe volte i libri faticosi da leggere poi ripaganoCecità è indubbiamente uno di questi.


Raccontami ogni cosa

Anche questo mese siamo arrivati in fondo a questa newsletter che, tra varie traversie, esiste e resiste ormai da nove anni. Il prossimo festeggiamo il decennale!

Ti saluto con una poesia, brevissima, di Patrizia Cavalli

Ma per favore con leggerezza
raccontami ogni cosa
anche la tua tristezza.

Buona domenica e buon inizio settimana!

Marina


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