Ho cominciato questo articolo più volte, scrivendo e cancellando frasi e parole. Non ho le idee chiarissime su quello che voglio scrivere e non sono sicura di avere abbastanza materiale per un buon articolo. In più sono appena tornata da due settimane di vacanza e pare che il mio cervello sia rimasto là e non abbia più voglia di cooperare.

Cosa provo in questo momento? Devo scrivere (voglio scrivere) ma mi sento bloccata, e quindi provo emozioni spiacevoli di ansia, frustrazione, insicurezza.

Come reagisco a queste emozioni? L'impulso è quello di evitare ciò che mi mette in difficoltà. Potrei dare un'occhiata alla posta, o a Facebook, per distrarmi un po', o potrei anche spegnere il computer e fare qualcosa di più piacevole: in fondo chi l'ha detto che devo scrivere questo articolo?

C'è uno schema molto chiaro in questo: difficoltà --> ansia --> evitamento.

È uno schema che molti di noi conoscono bene, anzi dubito che esista sulla terra qualcuno che non abbia mai sperimentato niente del genere. L'abbiamo provata tutti la tentazione di chiudere il libro davanti a un esame difficile, di non portare a termine un lavoro troppo gravoso (o troppo noioso), di non intraprendere un viaggio che ci sembra troppo impegnativo. L'evitamento davanti all'insicurezza è una reazione piuttosto comune.

paura

Questo stesso meccanismo di evitamento si ritrova in chi soffre di disturbi d'ansia portato all'esasperazione: cominciamo a evitare luoghi e situazioni percepiti come ansiogeni, con conseguenze anche molto invalidanti sulla nostra vita. Proseguendo per la strada dell'evitamento ci si può ritrovare a non potere andare più al supermercato, al lavoro, in vacanza.

È per questo che si invitano le persone che soffrono di ansia a forzarsi un pochino e a non cedere troppo alla tentazione dell'evitamento. Evitare ci fa sentire tranquilli sul momento, perché rimuove dal nostro orizzonte la situazione che crea ansia, ma non è una strategia che funziona sul lungo periodo. L'ansia in realtà ritorna lo stesso, e ogni volta che abbiamo evitato qualcosa abbiamo in realtà ristretto i nostri confini, dando ulteriore spazio alla paura.

L'idea che voglio esplorare in questo articolo, è che la tendenza - dannosa - all'evitamento si può contrastare cercando di adottare una mentalità dinamica rispetto alle nostre emozioni. Evitare significa arrendersi, e credo che ci arrendiamo quando crediamo che le emozioni spiacevoli che proviamo rispetto a una certa situazione siano fisse e non modificabili, quando cioè tendiamo a diventare vittime dei nostri stati d'animo.

Cosa intendo? Proviamo ad allargare un po' il discorso e vediamo dove ci porta.

Non ancora

La psicologa americana Carol Dweck è conosciuta in tutto il mondo per avere messo a fuoco due diversi tipi di mentalità che ha definito mentalità statica e mentalità dinamica (o forse meglio mentalità di crescita, in inglese è growth mindset).

In uno dei suoi discorsi, ha parlato di una scuola superiore di Chicago in cui agli studenti che non raggiungevano la sufficienza in qualche corso di studio veniva dato questo voto: not yet / non ancora. Quindi non un quattro o un cinque, né promosso o bocciato, ma non ancora: non sei ancora pronta (o pronto), per superare questo passaggio.

Questo non ancora è una meravigliosa forma di incoraggiamento: non respinge, non etichetta come fallimento, ma ti dice che devi lavorare ancora. Dice oggi no, ma forse domani sì. È un invito ad adottare una mentalità dinamica.

Secondo Carol Dweck in genere le persone tendono ad avere due atteggiamenti diversi davanti alle difficoltà o alle sfide della vita.

C'è chi ha una mentalità fissa: crede cioè che talento, capacità e intelligenza siano date una volta per tutte. Se hai una mentalità fissa, quando ti trovi davanti a un ostacolo pensi cose di questo genere: se sono in difficoltà significa che questa cosa è troppo difficile per me, non ci sono portata, non sono abbastanza capace o abbastanza intelligente. Da qui all'evitamento il passo è corto: sono in difficoltà --> vuol dire che non lo so fare --> lascio perdere.

Chi invece ha una mentalità dinamica è convinto  che intelligenza, capacità e talenti si possano sempre migliorare. Davanti alle difficoltà cerca di capire come superarle. Non si sente stupido o limitato se non riesce in qualcosa, piuttosto cerca di trovare il modo per uscire dal problema migliorando, provando, esercitandosi.

Una strategia che Carol Dweck e il suo gruppo ha adottato per stimolare alcuni studenti ad assumere una mentalità dinamica è stata quella di spiegare loro che affrontare un compito difficile significa allenare il cervello. Quando affrontiamo cose difficili, nel nostro cervello si rafforzano le connessioni tra i neuroni coinvolti, o se ne creano di nuove. Ecco quindi che quando ci troviamo a fare qualcosa che non ci viene facile, questo non è segno che non siamo abbastanza bravi o intelligenti, ma che stiamo stimolando il nostro cervello a diventare più intelligente. È un po' come nell'attività fisica: se stai facendo fatica significa che stai allenando i tuoi muscoli a diventare più forti.

Quello che hanno verificato i ricercatori è che gli studenti, stimolati a non andare in crisi davanti alle cose difficili, in effetti riuscivano a migliorare e di molto il loro rendimento.

Per questo, secondo Carol Dweck, è importante che venga lodato il processo più che la bravura e l'intelligenza, perché così si crescono persone abituate a confrontarsi con le difficoltà e a impegnarsi per superare i propri limiti. Questo non vuol dire che abbiamo tutti le stesse capacità e talenti, ma vuol dire che tutti possiamo crescere.

Lei sostiene che addirittura lodare troppo l'intelligenza sia controproducente.

Quando dici a una persona che è intelligente la metti in una scatola, o meglio in un piedistallo. La spingi a organizzare la sua vita in modo da meritare quel piedistallo, e quindi a evitare le situazioni che al contrario la possano fare sentire stupida o in difficoltà, e fare solo quello che le riesce bene. Abbiamo diffuso l'idea che le persone intelligenti non fanno errori e che non hanno bisogno di lavorare duramente, che la cosa più importante sia apparire svegli in ogni situazione. Questo spinge le persone a restringere il loro ambito di azione alle cose in cui possono riuscire senza difficoltà (fonte Carol Dweck a Google)

Mentalità dinamica ed emozioni

Si può applicare questa idea delle due mentalità - fissa e dinamica - anche alle emozioni?

Secondo quanto scrive Hans Schroder - ricercatore al dipartimento di psichiatria dell'Università del Michigan - la risposta è sì.

Come rispondono le persone ai propri sentimenti? Pensano che siano inevitabili e li subiscono? O pensano che siano modificabili?

Qui su questo blog abbiamo parlato spesso di come sia fondamentale imparare ad accettare le proprie emozioni: non possiamo scegliere quali emozioni provare, non possiamo decidere di aprire la porta solo alla gioia e alla serenità, e lasciare fuori tutto quello che è scomodo. Le emozioni, semplicemente accadono e pretendere di controllarle sarebbe da stupidi.

Ma accettare le proprie emozioni, non significa subirle passivamente e nemmeno credere che siano immutabili. La differenza può sembrare sottile, ma c'è, ed è essenziale.

Hans Schroder nei suoi studi ha cercato di capire che tipo di atteggiamento hanno le persone nei confronti di una emozione scomoda e difficile come l'ansia. Ha verificato che alcune persone tendono ad avere una mentalità fissa nei confronti dell'ansia: la considerano come una parte fondamentale del loro essere e credono si tratti di qualcosa sulla quale non è possibile esercitare alcun controllo. Io direi: tendono a identificarsi con la propria ansia. Altri invece hanno una mentalità dinamica: considerano l'ansia come una emozione molto sgradevole ma transitoria e credono possa essere affrontata e gestita.

Nel leggere l'articolo di Hans Schroder - ho pensato: ecco, è questo ad avermi salvata tante volte. Ho sempre avuto una mentalità dinamica, ho sempre creduto che le mie difficoltà fossero temporanee, che i disturbi d'ansia non mi definissero come persona ma che fossero qualcosa con cui dovevo, mio malgrado, avere a che fare e che in un modo o nell'altro potevo gestire.

Ho imparato anche a dialogare con me stessa proprio sul tema della transitorietà degli stati ansiosi. Da diverso tempo, per esempio, mi capita di avere dei momenti di crisi allo stesso orario, prima di cena. Comincio a sentirmi stanca, sconfitta, e spaventata senza ragione. Mi sembra tutto buio, vuoto, inutile, angosciante. Mi sento debole, penso che sto per sentirmi male e se sono fuori casa, come mi è successo in vacanza, mi maledico perché vorrei solo essere al sicuro tra le mie quattro pareti. Eppure quando arriva questo momento, e arriva quasi tutti i giorni, trovo sempre dentro di me una voce rassicurante che mi ricorda che è solo la crisi delle sette, che per qualche motivo attorno a quell'ora mi sento così, ma che se continuo a fare le mie cose normalmente senza farmi sopraffare dalla spiacevolezza di quell'angoscia senza senso e senza nome, poi passa. Non passa perché la scaccio o la rifiuto, passa perché la riconosco e provo ad attraversarla senza farmi travolgere.

Quello che è emerso dalle ricerche di Hans Schroder è proprio questo: chi ha una mentalità dinamica nei confronti dell'ansia - chi la considera come uno stato d'animo transitorio, che è destinato a passare (o da solo, o grazie a qualche strategia) - riesce a gestirla molto meglio di chi invece tende a pensare di essere tutt'uno con la sua ansia e a considerarla come una condanna immutabile.

Chi ha questo atteggiamento fisso rispetto alle proprie emozioni negative, e all'ansia in particolare, tende maggiormente a utilizzare quelle strategie di evitamento che alla lunga si dimostrano controproducenti. Chi invece sviluppa un atteggiamento dinamico è più incline a sedersi assieme alla propria ansia, a osservarla, magari con un pizzico di curiosità, imparando a tollerare questo sentimento così sgradevole, diventando sempre più resistente e capace di gestire gli stati ansiosi.

Con compassione

C'è un altro ingrediente, se così vogliamo chiamarlo, che ci aiuta a irrobustire le nostre capacità di gestire l'ansia: l'atteggiamento compassionevole verso noi stessi.

Sviluppare un atteggiamento dinamico nei confronti degli stati ansiosi e imparare a ricorrere sempre meno a strategie di evitamento è molto più facile se riusciamo a osservarci nelle nostre difficoltà con uno sguardo amorevole e affettuoso.

E qui si ritorna un po' al discorso iniziale che è l'atteggiamento davanti alle difficoltà e alla fatica.

Rifiuto ed evitamento scattano più facilmente se sotto sotto siamo convinti che in noi ci sia qualcosa che non va: provo ansia, sono in difficoltà, questa cosa non mi riesce, non la so fare, forse mi verrà un attacco di panico, ecco sono sbagliata, una persona normale, una persona intelligente, equilibrata, mentalmente sana, non dovrebbe provare tutto questo disagio. Ecco il rimprovero, il giudizio, il confronto con quello che secondo noi dovrebbe essere giusto, o normale, e che inevitabilmente è diverso da quello che invece è. Siamo bravissimi a giudicare inadeguato, inopportuno, sbagliato, fuori luogo, quello che proviamo e a puntarci il dito addosso.

Allora abbiamo bisogno di self-compassion, che non significa essere indulgenti con se stessi, o ristagnare nel povero me, ma essere amichevoli e affettuosi. Se siamo in difficoltà - qualsiasi sia il tipo di difficoltà che stiamo affrontando - non ha senso che questa difficoltà si trasformi in un giudizio negativo su noi stessi. È come farsi male due volte.

Se non riusciamo a fare quel compito di matematica, non serve dirci che siamo stupidi e che non ci riusciremo mai. Probabilmente abbiamo bisogno di studiare di più o magari di trovare qualcuno che ci spieghi un po' meglio.

Se veniamo sopraffatti dall'ansia senza motivo è inutile pensare che siamo inadeguati, sbagliati, destinati a soffrire per sempre. Probabilmente abbiamo solo bisogno di aspettare che passi, di aiutarci con qualche strategia di rilassamento, o forse di cambiare qualcosa nella nostra vita.

Sembra che tra avere difficoltà a fare un compito di matematica e soffrire d'ansia non ci sia nessuna relazione, eppure, a situazioni così diverse si possono applicare le stesse logiche e principi. E forse non è un caso se anche Kristine Neff - pioniera della self-compassion in psicologia - ha fatto ricerca sugli studenti e si è accorta che quelli più compassionevoli verso se stessi erano anche quelli più capaci e motivati: si perdonavano gli errori andavano avanti. Si tratta sempre dell'atteggiamento che adottiamo davanti alle difficoltà.

In questo articolo ho, come si suol dire, messo assieme le mele con le pere? Forse, eppure un filo rosso c'è e riguarda la capacità di spezzare il circolo vizioso tra difficoltà, disagio ed evitamento. Provo a riassumere.

  • Quando affrontiamo una difficoltà proviamo ansia, e qualche volta la difficoltà è l'ansia stessa.
  • La reazione più istintiva davanti a una difficoltà è l'evitamento: mi allontano da ciò che mi mette a disagio.
  • Ma l'evitamento sul lungo periodo non è produttivo: ci fa diventare sempre più ansiosi, e ci impedisce di crescere e di svilupparci come individui.
  • Per evitare l'evitamento è utile sviluppare una mentalità dinamica: sapere cioè che quello che mi mette in difficoltà oggi, potrebbe benissimo essere superato domani, se mi ci applico.
  • Per sviluppare una mentalità dinamica dobbiamo cambiare il modo con cui ci approcciamo alle difficoltà: smettere di vederle come sconfitte, come segnali del fatto che non siamo adeguati e cominciare a considerarle come sfide che ci permettono di migliorare.
  • Per riuscirci è fondamentale avere un atteggiamento amichevole verso se stessi, sviluppare più auto-compassione e meno giudizio e critica.

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